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Vangelo Domeniche e Festività

30 Dicembre – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

 
S FamigliaNella domenica in cui  la Chiesa ci chiede di fare memoria dei genitori di Gesù, di questa famiglia in cui Gesù è nato, è stato allevato ed è cresciuto, riportiamo l’ “Epilogo” dell’ultimo libro di Papa Benedetto XVI ( L’Infanzia di Gesù ) ” Gesù dodicenne nel tempio
Oltre alla narrazione sulla nascita di Gesù, San Luca ci ha conservato ancora un prezioso piccolo dettaglio della tradizione circa l’infanzia – un dettaglio in cui traspare in modo singolare il mistero di Gesù.  Ci viene raccontato che ogni anno per la Pasqua in genitori di Gesù andavano in pellegrinaggio a Gerusalemme. La famiglia di Gesù era pia, osservava la Legge.
          Nelle descrizioni delle figure di Gesù a volte viene rivelato solo l’aspetto di contestazione, il procedere di Gesù contro una devozione falsa. Così Gesù appare come un liberale o un rivoluzionario. In effetti, nella sua missione  di Figlio, Gesù ha introdotto una nuova dimensione nel rapporto dell’uomo con Dio. Questo però non è un attacco alla pietà d’Israele. La libertà di Gesù non è la libertà del liberale. È la libertà del figlio e così è la libertà di colui che è veramente pio.  Come Figlio, Gesù porta una nuova libertà, ma non quella di colui che è senza legame, bensì la libertà  di Colui che è totalmente unito alla volontà del Padre e che aiuta gli uomini a raggiungere la libertà dell’unione interiore con Dio.
         Gesù non è venuto per abolire, ma per portare a compimento ( cfr. Mt. 5,17) Questa connessione proviene dall’essere Figlio , tra una novità radicale e una fedeltà altrettanto radicale, appare proprio anche nella breve narrazione di Gesù dodicenne; anzi direi che essa è il vero contenuto teologico a cui mira il racconto.
 Torniamo a genitori di Gesù. La Torà prescriveva che per le tre grandi feste – la Pasqua, la festa delle settimane e la festa delle Capanne – ogni Israelita dovesse presentarsi nel tempio ( cfr. Es 23,17; 34,23s; Dt 16,16s ). La questione se anche le donne fossero obbligate a questo pellegrinaggio era discussa tra le scuole di Shammai e di Hillel. Per i ragazzi l’obbligo vigeva a partire dal tredicesimo anno compiuto. Ma al contempo, valeva anche la prescrizione che essi dovevano abituarsi passo passo  ai comandamenti. A ciò poteva servire il pellegrinaggio già all’età di dodici anni: Il fatto che  Maria e Gesù abbiano partecipato al pellegrinaggio dimostra, dunque, ancora una volta la religiosità della famiglia di Gesù.
    Facciamo attenzione, in questo contesto, anche al senso più profondo del pellegrinaggio: andando tre volte all’anno verso il tempio. Israele rimane, per così dire, un popolo in pellegrinaggio, un popolo che è sempre in cammino verso il suo Dio e riceve la sua identità e la sua unità sempre di nuovo nell’incontro con Dio nell’unico tempio. La Santa Famiglia si inserisce in questa grande comunità in cammino verso il tempio e verso Dio.
          Nel viaggio di ritorno avviene una cosa inaspettata. Gesù non parte con gli altri, ma rimane a Gerusalemme. I suoi genitori si accorgono di questo soltanto alla fine del primo giorno di ritorno del pellegrinaggio. Per loro, evidentemente, era del tutto normale suppore che egli si trovasse da qualche parte nella grande comitiva. Luca usa per essa la parola synodia  – «comunità in cammino» – , il termine  tecnico della carovana: In base alla nostra immagine, forse troppo gretta, della Santa Famiglia, questo  fatto stupisce. Ci mostra, però, in modo molto bello, che nella  Santa Famiglia libertà e obbedienza erano ben conciliate l’una con l’altra.  Il dodicenne era lasciato libero di decidere se mettersi insieme con coetanei e amici e rimanere durante il cammino in loro compagnia. Alla sera, però, lo attendevano i genitori.
  Il fatto che Egli non fosse presente, non ha più niente a che fare con la libertà dei giovani, ma rimanda ad un altro livello, come si sarebbe reso evi­dente: rimanda alla missione particolare del Figlio. Per i genitori cominciarono con ciò giornate piene di angoscia e di preoccupazione. L’evangelista ci rac­conta che solo dopo tre giorni essi ritrovarono Gesù nel Tempio, dove stava seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava (cfr. Lc 2,46).
 I tre giorni sono spiegabili in modo molto concre­to: per una giornata Maria e Giuseppe erano andati verso nord, avevano impegnato un’altra giornata per il ritorno, e il terzo giorno finalmente trovarono Gsù.
Anche se i tre giorni quindi sono un’indicazione temporale molto realistica, bisogna tuttavia dar ra­gione a René Laurentin che qui percepisce un accen­no sommesso ai tre giorni tra Croce e Risurrezione. Sono giornate di sofferenza a causa dell’assenza di Gesù, giornate di un buio la cui gravità si sente nelle parole della Madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Cosi, dalla prima Pasqua di Gesù si stende un arco fino alla sua ultima Pasqua, quella della Croce.
La missione divina di Gesù rompe ogni misura umana e diventa per l’uomo sempre nuovamente un mistero oscuro. Per Maria, qualcosa della spada del dolore di cui aveva parlato Simeone ( cfr. Lc. 2,35) diventa percettibile in quell’ora. Più una persona si avvicina a Gesù, più viene coinvolta nel mistero della sua Passione.
La risposta di Gesù alla domanda della madre e im­pressionante: Ma come? Mi avete cercato? Non sapevate dove deve essere un figlio? Che cioè deve tro­varsi nella casa del Padre, «nelle cose del Padre» (Le 2,49)?  Gesù dice ai genitori: mi trovo proprio là dove è il  mio posto -presso il Padre, nella sua casa.
In questa risposta sono importanti soprattutto due cose. Maria aveva detto: «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Gesù la corregge: io sono presso il Pa­dre. Non è Giuseppe mio padre, ma un Atro – Dio stesso. A Lui appartengo, presso di Lui mi trovo. Può forse essere espressa più chiaramente la figliolanza divina di Gesù?
Con ciò e direttamente connessa la seconda cosa. Gesù parla di un «dovere» al quale Egli  si attiene. II Figlio, il bambino deve essere presso il padre. La pa­rola greca dei, che Luca qui usa, ritorna sempre nei Vangeli là dove viene presentata la disposizione della volontà di Dio, alla quale Gesù è sottomesso. Egli «deve» soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso e risorgere, come dice ai discepoli dopo la professione di Pietro ( cfr. Mc. 8,31). Questo « deve » vale già anche in questo momento iniziale. Egli deve essere presso il  Padre, e cosi diventa chiaro che ciò che appare come disobbedienza o come libertà sconveniente nei con­fronti dei genitori, in realtà, è proprio espressione della sua obbedienza filiale. Egli è nel Tempio non come ribelle contro i genitori, bensì proprio come Colui che obbedisce, con la stessa obbedienza che condurrà alla Croce e alla Risurrezione.
San Luca descrive la reazione di Maria e Giuseppe alla parola di Gesù con due affermazioni: «Essi non compresero ciò che aveva detto loro», e «Sua ma­dre custodiva tutte queste parole nel suo cuore» (Lc 2,50.51). La parola di Gesù è troppo grande per il momento. Anche la fede di Maria è una fede «in cam­mino», una fede che ripetutamente si trova nel buio e, attraversando il buio, deve maturare. Maria non comprende la parola di Gesù, ma la custodisce nel suo cuore e lì la fa arrivare pian piano alla maturità.
Sempre di nuovo le parole di Gesù sono più grandi della nostra ragione. Sempre di nuovo superano la nostra intelligenza. La tentazione di ridurle, di manipolarle per farle entrare nella nostra misura, è comprensibile. Fa parte dell’esegesi giusta proprio l’umiltà di rispettare questa grandezza che, con le sue esigenze, spesso ci supera, e di non ridurre le parole di Gesù con la domanda circa ciò di cui possiamo «crederlo capace». Egli ci ritiene capaci di grandi cose. Credere significa sottomettersi a questa grandezza e crescere passo passo verso di essa.
In questo, Maria viene presentata da Luca mol­to consapevolmente come colei che crede in modo esemplare: «Beata colei che ha creduto», le aveva det­to Elisabetta (Lc 1,45). Con l’annotazione, ripetuta due volte nel racconto dell’infanzia, secondo cui Ma­ria custodiva le parole nel suo cuore (cfr. Lc 2,19.51), Luca rimanda – come s’è detto – alla fonte, alla quale egli attinge per la sua narrazione. Al tempo stesso Maria appare non soltanto come la grande credente, ma come l’immagine della Chiesa, che custodisce la Parola nel suo cuore e la trasmette.
«Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso […] E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,51s). Dopo il momento in cui aveva sfolgorato l’obbedien­za più grande nella quale viveva Gesù, Egli ritorna alla situazione normale della sua famiglia – nell’umil­tà della vita semplice e nell’obbedienza verso i suoi genitori terreni.
All’affermazione circa la crescita di Gesù in sa­pienza ed età, Luca aggiunge la formula tratta dal Primo Libro di Samuele, che la si riferisce appunto al giovane Samuele,( cfr. 2,26 ): cresceva in grazia ( benevolenza, gradimento ) davanti a Dio e agli uomini.
Con ciò, l’evangelista si rifà ancora una volta al colle­gamento tra la storia di Samuele e la storia dell’infan­zia di Gesù, collegamento apparso per la prima volta nel Magnificat, il canto di lode di Maria in occasione dell’incontro con Elisabetta. Questo inno di gioia e di lode di quel Dio che ama i piccoli e una nuova versio­ne della preghiera di gratitudine con la quale Anna, la madre di Samuele, che era senza figli, ringrazia per il dono del bambino con cui il Signore aveva posto fine alla sua sofferenza. Nella storia di Gesù -cosi ci dice l’evangelista con la sua citazione – la storia di Samue­le si ripete ad un livello più alto e in modo definitivo.
 E importante anche ciò che Luca dice sulla crescita di Gesù non solo in età, ma anche in sapienza. Da una parte, nella risposta del dodicenne si e reso evidente che Egli conosce il Padre – Dio – dal di dentro. Egli solo conosce Dio, non soltanto attraverso persone umane che lo testimoniano, ma Egli lo riconosce in se stesso. Come Figlio, Egli sta a tu per tu con il Pa­dre. Vive alla sua presenza. Lo vede. Giovanni dice che Egli è 1’Unico che «è nel seno del Padre» e perciò può rivelarlo (Gv 1,18). E proprio ciò che diventa evidente nella risposta del dodicenne: Egli è presso il Padre, vede le cose e gli uomini nella sua luce.
Tuttavia e anche vero che la sua sapienza cresce. In quanto uomo, Egli non vive in un’astratta onniscienza  ma è radicato in una storia concreta, in un luogo e in un tempo, nelle varie fasi della vita umana, e da ciò riceve la forma concreta del suo sapere. Cosi appare qui, in modo molto chiaro, che Egli ha pensato ed imparato in maniera umana.
Diventa realmente chiaro che Egli è vero uomo e vero Dio, come s’esprime la fede della Chiesa. Il profondo intreccio tra l’una e l’altra dimensione, in ultima analisi, non lo possiamo definire. Rimane un mistero e, tuttavia, appare in modo molto concreto nella breve narrazione sul dodicenne – una narra­zione che cosi apre al tempo stesso la porta verso il tutto della sua figura, che poi ci viene raccontato dai Vangeli.
 
 
 

IV Domenica di Avvento – Visitazione: icona di un comunicare umano e riuscito.

visita-maria-elisabettaLa storia della salvezza è presentata so­vente nella Bibbia come una successione di “visite ” di Jahve al suo popolo …..
La visita nel linguaggio biblico è la visita di Dio al suo popolo e il mistero della visitazione va inquadrato in questo più ampio mistero, per Luca infatti la visita di Maria a Elisabetta è il prodromo della visita che il Signore fa al suo popolo per la mediazione di Maria.
 Come diceva il Cardinale Carlo Maria Martini il mistero della Visitazione permette al credente d’oggi di approfondire un aspetto importante della vita di fede: la ricerca della volontà di Dio nelle relazioni e negli incontri quotidiani.
 Nell’incontro tra Maria ed Elisabetta sono presenti tutte le caratteristiche di una relazione profonda e autentica fondata su Dio, soprattutto la reciprocità (si comprende, si è compresi , si discerne la volontà di Dio, si comunica).
E’ un comunicare che si manifesta anzitutto nel mistero della voce, comunicativa di gioia, vibrante e modulata così da far trasalire chi l’ascolta (“Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio seno”: Lc 1, 44).
Attenzione reciproca e concretezza sono alla base della comunicazione dialogica tra Maria e Elisabetta.
E’ un incontro nel gesto e nella parola che esprime la sovrabbondanza del cuore, la gratitudine e la gratuità.
 Maria si sente capita a fondo, sente che il suo segreto, che non aveva osato dire a nessuno e che non sapeva come esprimere senza timore di essere tacciata di follia, è stato capito, accolto, stimato, apprezzato
 La tenerezza di questo incontro è figura di un comunicare umano e riuscito. ( B. Forte )
 L’incontro fra Maria ed Elisabetta è modello di relazione pastoraleLa radice del verbo greco “visitare”  (episképtomai) si trova anche nel termine vescovo (epískopos).
 La relazione pastorale, fondata sulla ricerca della volontà di Dio e sulla presenza di Dio nel proprio cuore è mossa dalla carità e apporta gioia; per questo motivo è costruttiva e consolante, in quanto mostra come nelle pieghe della quotidianità si nasconde la salvezza.
 Gli esegeti hanno notato che Luca, narrandoci l’episodio della visita di Maria a Elisabetta, si è ispirato ad un testo dell’Antico Testamento che ci descrive il cammino dell’arca dell’alleanza verso il Tempio di Gerusalemme (2 Sam. 6, 1-13).
L’arca in cui abita Jahvé è trasportata alla volta di Gerusalemme.
Davide, al suo passaggio, danza e salta di gioia.
Prima che l’arca giunga da Obed-Edom nelle montagne della Palestina, Davide esclama: « Com’è possibile che l’arca del Signore venga verso di me? ».
Il raffronto con la scena della Visitazione è sorprendente.
Le parole sono le stesse.
Qui, come là, si parla delle montagne della Palestina.
Come Davide salta (skirtai) davanti all’arca, Giovanni salta (skirtai) davanti a Maria; e le parole ,di saluto che Elisabetta rivolge a Maria sono le stesse con le quali Davide saluta l’arca.
È facile scorgere la profondità teologale che questo collegamento fatto da Luca fra i due episodi, conferisce alla Visitazione.
Quello che era l’arca nell’Antica Alleanza, il luogo dove Jahvé abitava in mezzo al suo popolo, lo è Maria nella Nuova Alleanza poiché in Lei ha preso dimora il Verbo.
L’episodio della Visitazione è così quasi sottratto all’aneddoto ed acquista la sua dimensione divina.
Questo stesso movimento della Storia sacra continua. Lo stesso Dio è in cammino attraverso la Storia «operando meraviglie» e suscitando la gioia messianica.
Ma se vi è in tal modo un’analogia fra l’Antico ed il Nuovo Testamento, fra la presenza di Dio nel tabernacolo e la presenza di Dio in Maria, essa non deve nasconderci l’abisso che separa i due momenti.
La presenza nell’arca appartiene ancora all’ordine dei simboli.
La presenza in Maria è già nell’ordine del compimento.
Ed è qui che appare il carattere unico dell’ordine di Giovanni poiché è pur vero che egli appartiene ancora all’Antica Alleanza ed al tempo delle preparazioni e delle prefigurazioni. E tuttavia, quando Maria visita Elisabetta, le promesse sono state adempiute e Dio ha visitato il sua popola.
È già il Verbo incarnato che, presente Maria, fa balzare di gioia Giovanni come un novello Davide, nel seno di sua madre. La Visitazione e la santificazione di Giovanni sono le prime manifestazioni dell’Incarnazione. È già opera del Verbo; sono già le prime manifestazioni della Grazia. (JEAN DANIÉLOU )
 

III Domenica di avvento: vivere il vangelo nella concretezza della storia.

Baptista predL’invito di Giovanni Battista alla conversione viene accolto dal popolo, ad eccezione dei rappresentanti dell’istituzione religiosa.
Al suo battesimo accorrono le folle e accorrono addirittura i pubblicani, i soldati, ma sono assenti scribi, sacerdoti e farisei. ….
Le folle che invece accolgono l’invito di Giovanni Lo interrogavano chiedendo: “Che cosa dobbiamo fare?” …. Nelle risposte di Giovanni Battista non c’è nulla che riguardi la religione, nulla che riguardi il culto. Non dice “andate di più al tempio, portate delle offerte, pregate di più”, ma suggerisce atteggiamenti di giustizia, di solidarietà, di condivisione nei confronti dell’uomo. ( A. Maggi)
 Che volete che significhi il battesimo?
Anch’esso è diventato un rito sterile, inutile in cui le buone famiglie si assicurano che anche i figli siano garantiti per la vita eterna.
Ma un battesimo di fuoco è un battesimo che brucia, come il fuoco nelle stoppie.
Il battesimo di fuoco ci rende impazienti, ci rende incapaci di stare zitti; il battesimo di fuoco ci rende appassionati nella denuncia delle ingiustizie e pone questa passione al di sopra di ogni altra preoccupazione, anche dell’obbedienza, della docilità.
 Questa passione sta prima di tutto.
 È al Regno di Dio che l’uomo aspira: questa è la certezza che, a volte , mi riconduce – come per una specie di reazione dinanzi alla realtà storica – all’intimità del Vangelo come germe vivo.
Io mi ritrovo in quel Regno, lo sento vero, sento che esso circoscrive e relativizza tutto il sapere umano; tutto il razionalismo che si è svolto in antagonismo con la religione.
 L’annuncio evangelico è puro: esso è consegnato a coloro che lo vivono.
Gesù è ancora uno sconosciuto, come lo annunciava il Battista: «C’è in mezzo a voi uno che non è conosciuto».
Noi abbiamo Cristo nei crocifissi, nei quadri, nei simboli, nelle croci pettorali dei vescovi, negli anelli ma in realtà egli è uno sconosciuto, perché la Sua Verità verrà dopo la giustizia, e la giustizia non c’è.
 In questo mondo, se Gesù viene, è crocifisso per necessità.
Dove più è acclamato, più è crocifisso.
 Bisogna essere fedeli a questa certezza, e bisogna certo, anche concedersi la gioia, ma sapendo che essa è parzialmente illegittima, e che essa è solo il pregustamento di ciò che sarebbe il mondo, qualora facessimo giustizia.
Ci sono dei pessimisti che dicono: L’uomo è nato lupo per l’uomo e così sarà sempre. Dinanzi alla violenza non si meravigliano nemmeno: il mondo non può andare che così.
 Ma chi ha sperimentato che potrebbe andare in un altro modo, chi ha scoperto che dipende da noi, non dal fato, dalle stelle o dalla provvidenza, ma da noi, che vada in un altro modo, allora diventa più indomabile nel combattere le condizioni che impediscono questa realizzazione.
Non ci sono due realtà: una il Regno di Dio e una il regno dell’uomo.
La creazione è una sola; o il progetto di Dio è uno solo per tutti gli uomini.
Avere questa certezza significa realizzare in noi l’attesa, l’avvento.
Questa attesa ci pone nel cuore dei problemi di tempo e ci suggerisce, con fantasia creativa, espedienti per lottare contro la meccanica di morte, dinanzi alla quale sta la predicazione del Vangelo di Giovanni il Battista.
 I pubblicani, gli scribi, i farisei, Erode, tutti sono – dinanzi a Lui – condannati.
Noi sappiamo che Cristo deve venire, viene dopo, ma è già presente anche in questo Vangelo di giustizia. Basta avere queste certezze e poi aprire le pagine del giornale di stamani per sapere come si fa a vivere il Vangelo nella concretezza della storia, senza troppa teoria. Basta rifarsi a questi imperativi di fondo, illuminati dalla Parola di Dio di oggi, per sapere che non si può essere cristiani se non ci addossiamo – in modo concreto – le tribolazioni in cui vive l’umanità che sconta le proprie ingiustizie. (Ernesto Balducci – da “Il Vangelo della pace” vol. 3 – anno C )

II Domenica di Avvento: il deserto luogo di rinascita

Il  deserto, è  luogo in cui è possibile semplificare la propria vita, passando attraverso il vaglio della solitudine; una solitudine che però non è fine a se stessa, ma è condizione a cui Dio ci conduce perché possiamo ascoltare meglio la sua voce che sempre parla al nostro cuore (cf. Os 2,16). ( E. Bianchi )
 Il deserto è il luogo privilegiato dell’incontro:  nel deserto Gesù è tentato; nel deserto lo sposo va a recuperare la sua sposa  che si era persa  … la ripulisce …e la fa risplendere …  nel deserto ci si può perdere e morire  … ma ci si può fortificare   …
 “ non si fugge nel deserto …il deserto è luogo di raccoglimento per ritrovare le misure totali per ritornare alla città “  ( E. Balducci )  … nel deserto non veniamo mai lasciati soli…
  [ Il deserto ] è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi.
Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’ azione dell’ acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte. 
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5),  il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. … 
Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé …. tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa ….  tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! ….
Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. 
 Ma  per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’ occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria.
Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3).
Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e così esso diviene cifra dell’ ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria  esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
 Sull’esempio di Giovanni il cristiano è chiamato a preparare ogni giorno una strada nelle sabbie del proprio cuore, abbassando i monti del proprio orgoglio e colmando i burroni della propria disperazione… E questa dura lotta ha in fondo un unico scopo: giungere a comprendere che il desiderio profondo di Dio è la salvezza di tutti gli uomini, quell’evento che si compirà pienamente con la Venuta del Signore alla fine della storia: “ogni carne vedrà la salvezza di Dio!”.
Per noi che ancora oggi siamo in attesa del Veniente, Giovanni è il nuovo Elia (cf. Ml 3,23-24; Lc 1,17), è colui che apre e annuncia la salvezza che sta per essere compiuta dal Figlio dell’uomo.
 Sì, Giovanni è stato il precursore di Cristo nella storia e lo sarà fino alla fine dei tempi, come aveva capito con grande intelligenza un antico padre della chiesa che scriveva: “il mistero di Giovanni si compirà fino alla Venuta nella gloria del Signore Gesù, perché lo spirito di Giovanni precede chiunque crede in Cristo, e la sua forza conduce gli uomini ad appianare le asperità dei loro cuori, a raddrizzare i sentieri delle loro vite”, richiede di essere “pronti” ad accogliere la venuta del Signore. Ma noi, noi cristiani, siamo pronti e veramente in attesa? (E. Bianchi)

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