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Vangelo Domeniche e Festività

Maria, la senza macchia, donna creata prima dell'Uomo che genererà, porterà in grembo, darà alla luce, educherà ed accompagnerà nella sua consegna a Dio fino alla croce

www.chiesadicefalu.itRallegrati, tu che hai ricevuto grazia”.

Questo saluto dell’angelo a Maria ci orienta a interpretare un po’ diversamente la sua Immacolata Concezione.

Immacolato vuol dire, letteralmente, senza macchia; dunque, Maria non è stata toccata dal peccato originale fin dal primo istante della sua esistenza nel seno di sua madre. Ma il peccato non è, per la Bibbia, una macchia o una tara, bensì una relazione interrotta, un’alleanza rifiutata.

Il peccato di Adamo è appunto questo, il voler essere “come Dio”, cioè il dio di se stessi, l’arrogante autosufficienza dell’uomo che si concepisce come centro e giudice di tutte le cose.

Ora, in Maria, vi è un nuovo inizio: la “grazia” è appunto il dono gratuito di una relazione di amore. Ma qui, la donna è creata prima dell’Uomo, e lo genererà, non solo perché lo porterà in grembo e lo darà alla luce, ma anche perché lo educherà, lo aiuterà a esprimere pienamente la sua umanità, la sua consegna a Dio, fino alla croce.

 Maria genera continuamente suo Figlio, e il culmine di questa sua maternità è proprio sul Calvario.

Il Papa Paolo VI parla, a proposito di Maria, della “peregrinazione della fede”.

La fede è un pellegrinaggio, che conosce i tempi duri dell’oscurità e della prova, che richiede perseveranza e pazienza.

Maria è degna figlia di Abramo: anche lei si fida di una promessa apparentemente assurda, unicamente sulla base di una parola ricevuta.

Seguiranno i tempi lunghi dell’attesa, in una vita quotidiana apparentemente sempre uguale: che meravigliosa costanza, nella Vergine che vive a Nazaret la prossimità a quel figlio, senza impazienza, per trent’anni!

Poi, a un certo punto, le promesse sembrano compiersi; il suo figlio comincia a comportarsi come l’angelo le aveva predetto.

Ma subito, come per Abramo, c’è la richiesta di un sacrificio che distrugge i fondamenti stessi della speranza.

E’ allora che Maria, come Abramo, “spera contro ogni speranza” e, come Abramo divenne per fede “padre di tutti noi” (ai Romani 4,16), così Maria diviene madre di tutti coloro che percorrono questa via difficile e gloriosa, con la tenerezza femminile e l’autorità di colei che la Liturgia chiama “avvocata di grazia”.

Oggi, noi siamo esortati a pensare a tutti coloro dai quali la nostra vita dipende.

Nessuno nasce da solo.

Noi siamo parte di una storia, la riceviamo e la trasmettiamo. Ma l’inizio di questa storia è il sì di questa giovane donna di Nazaret.

 Esso rimane associato per sempre all’obbedienza redentrice di Gesù.

Per questo, conviene consegnare a lei la nostra preghiera, la fatica della nostra fede, ma anche il gemito e la ricerca di tutti gli uomini.

Don Giuseppe Dossetti

I Domenica di Avvento: prepariamo una dimora "pulita" al Dio che viene.

«In 1Ts 3,12 + ci sono date le indicazioni per questo nostro Avvento: esortazione molto forte ad abbondare e a sovrabbondare.
  Se l’Avvento è quello che è, qui occorre abbondare: respingere il calcolo, la parsimonia, la misura stretta….  abbondare nella carità l’uno verso l’altro e verso tutti. Abbondare, avere una visione larga gli uni verso gli altri, uscire dalla nostra piccola tana e muoverci verso l’altro. 
… Il testo, in quello che segue, fa un forte richiamo alla purezza…. C’è nello spirito dell’Avvento (in modo diverso dalla Quaresima che è purificazione e umiliazione della persona e del corpo attraverso il digiuno) una preparazione di una dimora pulita al Signore che viene. Tutto è puro in ciò che è a  contatto con il Signore: il seno della Vergine; l’asinello su cui nessuno era montato; il sepolcro nuovo.
Forte richiamo alla purezza nella mente, nel cuore e nel corpo: estirpazione in radice dei desideri contrari perché a questo ci ha chiamato il Signore.
Il v. 8: Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito è importante non solo nella prima parte ma nell’ultima: Dio che dà lo Spirito Santo in voi. Il Signore viene nel mondo per dare una realtà nuova albare, limpidissima che è lo Spirito Santo. Lo Spirito è lo Spirito della limpidità, della purezza e degli affetti e del corpo ben armonizzati per cui Gerusalemme riposerà in fiducia e sarà quindi il suo nome il Signore giustizia nostra (d. G. Dossetti,  appunti di omelia, Gerico 2.12.1979).
 «La manifestazione del Figlio dell’uomo spacca l’universo e per questo non bisogna lamentarsi dei segni di sconvolgimento perché è la creazione nuova. Il cosmo in cui noi siamo inseriti è una realtà unica (di dentro e di fuori): se noi siamo proiettati nell’ultimo giorno nulla ci spaventa altrimenti tutto ci scuote di fuori e di dentro. È il vivere già in Dio che permette di rendere culto a Dio con gioia, ma non si può essere in questa gioia se non si è già là». (Sr. Agnese, appunti di omelia, 1972).
 …Noi sappiamo che tutto è precario, che all’improvviso tutto può finire: è per noi un dato scientifico. C’è anche un big-bang della fine come quello che la scienza ci suggerisce di immaginare alle origini del mondo. Ma questa consapevolezza scientifica non ci dice nulla.
Solo la coscienza è capace di attendere la novità.
La fede ci suggerisce l’attesa della novità conforme alla nostra attesa di giustizia, nel senso pregnante che ha la parola pace.
La pace è l’aspetto radioso della giustizia.
Essa prorompe dalla giustizia, postula la giustizia.
Questa attesa è sorretta dalla promessa che ci è stata fatta.
Nella coltre delle tenebre in cui siamo, una mano si stende verso di noi e noi dobbiamo tendere la nostra. Questa reciprocità contiene il senso del tempo!
La nostra attesa allora significa disposizione ad accogliere la promessa come un impegno.
Noi siamo spettatori di un processo, anzi il processo non si vede se non ci siamo dentro.
 Chi non si è liberato non vede nulla. Chi è prigioniero, come dice il Vangelo, delle «dissipazioni» non vede nulla, non si accorge del nuovo che viene, ma chi è proteso verso questo futuro diverso, un futuro che è sempre più indispensabile, è nel regno di Dio. (Ernesto Balducci – “Gli ultimi tempi” – vol. 3 – Anno C)
 … . Il nostro è il Dio della Promessa. Io credo nel Dio della promessa e nella promessa di Dio. Questa è l’essenza della fede.
E allora, se c’è questa promessa che si è attuata nel figlio dell’uomo, il mio atteggiamento non è più di paura invincibile, perché per quanto passino il cielo e la terra, c’è qualcosa che non passa: appunto la Parola che la fede schiude dentro come un fiore sempre vivo. (Ernesto Balducci – “da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 3)
 «È la parola che tiene il cuore leggero; le preoccupazioni terrene sono quelle che appesantiscono il cuore perché soffocano la Parola (cfr. Lc 8,14)» (Sr. Agnese, appunti di omelia, 1972).
 … Se la nostra consuetudine con la Parola di Dio non è occasionale ma strutturale, è una specie di ritmo interno che si intreccia col battito del cuore, queste cose noi le vediamo nascere.
E allora la nostra scelta di fede sarà non quella di piangere sulle catastrofi ma quella di allearci con le cose nuove in cui traluce l’adempimento della Promessa di Dio.
Ché se noi dovessimo fondare la certezza sull’esperienza non ce la faremmo. Come il rabbino della leggenda, a cui un cristiano osò dire che il Messia è già venuto ad inaugurare il suo regno; apri la finestra, guardò il mondo e disse: «No, il mondo è tale che il Messia non è venuto ». E aveva ragione.
Dov’è il Messia?
…  Egli è Colui che viene: il giorno del Signore viene, non appartiene al nostro calendario passato, è una dimensione del futuro che irrompe, appunto è un adventus, è qualcosa che viene verso di noi.
 Allora la fede consiste nel discernimento di questo processo antitetico al successo della catastrofe che è processo di vita. Consiste nell’allearsi ai nuovi segni della vita.
È che noi conosciamo la vita secondo le indicazioni dei vecchi manuali.
Molti cristiani si accostano alla realtà con lo schema già fatto delle leggi morali sancite, universali, e non si accorgono che conservando le loro leggi astratte mettono i piedi sul germoglio nuovo che è nato.
 Prima di essere una morale, la fede è discernimento, è un saper cogliere la realtà che nasce, è un passo verso ciò che nasce e cresce.
Questo è il modo di incontrare Dio.
 Altrimenti Dio diventa un nome consolatorio che ci strappa dalla comune condizione umana e ci rende incapaci di piangere adeguatamente e di essere adeguatamente sereni.
Quando la nostra vita si è legata, con questo nesso indissolubile, al processo del Dio che viene, allora siamo liberi dalla paura.
Infatti, che cosa può avvenire, poi?
Cosa può avvenire che spezzi questa sicurezza?
Niente può avvenire!
 All’interno di una vera comunità cristiana non c’è la paura di esser incompresi, perseguitati, vittime della storia.
C’è oggi un linguaggio vittimistico, fra i cristiani, che è insopportabile. Come se nel mondo non ci fossero vittime più serie, magari i negri del Sud.Africa, magari i palestinesi … Non staremo a piangere sul mondo che ci perseguita: staremo qui ad allevare il germoglio che è nato; ad esser pronti – in qualunque parte del pianeta – a scommettere che per la promessa di Dio, adempiuta in Cristo, la vita vincerà sulla morte. E questa certezza va pagata quotidianamente, non spesa nelle orazioni domenicali: va scontata giorno per giorno nelle scelte. (Ernesto Balducci – “da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 3)
 
 

Gesù Cristo Re dell'Universo: siamo cittadini di un regno che non avrà mai fine

Gesù non ha detto: vengo a predicarvi la verità, ma Egli ce la testimonia, cioè il suo essere è un segno di questa diversità, di questo regno diverso che è in ognuno di noi.
Chiunque viene dalla verità arriva al regno, perché nel regno di Gesù è cittadino chiunque assecondi la verità che ha in sé.
 Il termine verità, nella nostra cultura, è come una moneta di metallo, risuona.  Lo scienziato sa cosa è la verità: la sua.  Il filosofo ha la sua e il teologo ha la sua.  Tutti sanno cosa è la verità, ma ahimé essa è costruita con la lega del metallo corruttibile della cultura esistente.
Anche la più stupenda filosofia è fatta di leghe corruttibili.
 La verità di cui parla Gesù non è una verità oggettiva, misurata, sottomessa alle verifiche; ma è una verità «dentro», è una verità che parla ed ha le sue precise esigenze.
Non è una verità quella di cui ciascuno fa quello che vuole.
 Nel mondo di cui siamo figli se appena dico che ognuno deve seguire la sua coscienza è come se dicessi che ognuno può fare il suo capriccio, in quanto nel mondo in cui si è vissuti coscienza e arbitrio sono la stessa cosa, dato che quel mondo ha bisogno di verità misurabili, constatabili, affermabili e sottoponibili al controllo.
Siamo diseducati.
Quando dico: ciascuno si regoli secondo coscienza non do una norma concessiva ma do una norma severa.
 La verità è, in noi, ciò che la coscienza ci propone in assoluto.
È in essa che la vita acquista la dignità che trascende il tempo.
 Quando voglio dare dei nomi a questi contenuti – che non sono rigidi e fissi ma prendono forma, esigenze specifiche a seconda dei luoghi e dei tempi – dico giustizia, dico rispetto della persona altrui, dico pace, dico parole che danno nomi molteplici a questa verità unica di cui Gesù è il testimone.
Per esempio: non fa parte di questa verità unica il dire che quando uno ha un regno se lo deve difendere con la spada. Gesù dice a Pilato: se il mio regno fosse come il tuo, i miei avrebbero combattuto. Combattere con la spada non è secondo verità. È secondo una verità provvisoria, che poi è sempre contraria a se stessa. Infatti la nostra storia intera è solcata da fiumi di sangue tutti versati in nome del principio che senza una spada un regno non si regge. La conseguenza è che siamo sempre in guerra.
È la verità friabile a cui mi assoggetto anch’io, perché anch’io faccio parte del regno di questo mondo, anche se con l’esigenza di smontarlo perché si adempia il regno fondato sulla verità che tutti sentono, nonostante che essa sia deformata, avvilita, direi svergognata dalla verità pubblica.
Dobbiamo esser fedeli alla verità interiore perché è qui che si entra nel regno.
Il regno di Gesù non ha caratteristiche religiose, convenzionalmente parlando.
 Chi sono i cittadini di questo regno? Tutti coloro che vengono dalla verità.
Noi li vediamo ogni tanto, ma solo Dio li vede tutti. Non ne possiamo fare l’anagrafe. Quando si conta, si sbaglia, perché contare vuol dire obbedire ad una esigenza quantitativa, mentre la nostra esigenza è qualitativa. Siamo tanti in tutto il mondo, siamo (per un momento, per necessità retorica mi ci metto anch’io), siamo tanti a rendere testimonianza di questa verità nel mondo.
 Abitare in questo regno vuol dire vivere in comunione con tutti i nostri concittadini, che sono quelli che, invece, non hanno molta possibilità di essere accolti nel regno terreno, di cui sono cittadini in senso anagrafico e pubblico: i vecchi, i malati, i bambini, gli inermi, gli handicappati…
È una compagnia non molto efficiente, ma l’efficienza è criterio del regno di questo mondo. Il regno di Gesù dà testimonianza non di questo mondo. La sua diversità prende corpo e trova il suo luogo di sintesi storica e di riferimento operativo nella pace.
Questa è la pace.
Una pace che pesi sulle spalle di qualcuno non è una pace,
una pace che comporti – per esempio – il proseguimento delle spese per mantenere l’equilibrio e quindi affami mezzo mondo, non la chiamate pace.
 La pace implica tante cose.
Non è un passo opportunistico diverso dal passo opportunistico di ieri.
 C’è da temere sia quanto i titolari del potere si litigano sia quando si danno la mano. Non per nulla Gesù fu crocifisso quando Pilato ed Erode fecero la pace su di Lui, sulle sue spalle. Si riappacificarono perché avevano eliminato un disturbatore.
Se ci diamo la mani con la rivoltella in tasca e ci rispettiamo perché sappiamo di avere lo stesso numero di pallottole, le parole più pure cadono in un contesto terribile.
Questo è il peccato.
E la condizione che è nostro compito modificare, con pazienza di secoli magari.
La cittadinanza da cui siamo consolati è un’altra, quella del regno che non avrà mai fine per secoli eterni. Gli altri passano, cambiano titolari e finiranno, ma questo regno, di cui ho parlato sulla falsariga della indicazione evangelica, è eterno ed è diffuso fra tutte le genti.
(Ernesto Balducci da “Il Vangelo della pace” vol 2- anno B)

XXXIII Domenica del T.O. – Il tempo non è un continuo omogeneo che esclude ogni attesa, un eterno presente in cui tutto può avvenire tranne la venuta gloriosa del Signore Gesù

Avvicinandosi la fine dell’anno liturgico, la chiesa propone alla nostra meditazione l’ultima parte del grande discorso escatologico di Gesù (cf. Mc 13).
 Prima di andare verso la sua passione, morte e resurrezione (cf. Mc 14-16), Gesù rivolge ai discepoli un parola autorevole sulla fine dei tempi, istruendoli sull’evento che ricapitolerà tutta la storia e le darà un senso pieno: la parusia, cioè la venuta nella gloria del Figlio dell’uomo.
Servendosi di alcuni versetti tratti dai libri profetici, Gesù afferma che “in quei giorni il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo splendore, gli astri cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”.
Egli non vuole spaventare coloro che lo ascoltano, ma fa uso del linguaggio apocalittico, proprio della tradizione ebraica, per esprimere una realtà fondamentale: questo mondo e questa creazione vanno verso una fine, verso quel “Giorno del Signore” già invocato dai credenti di Israele, giorno di salvezza e di giudizio. E ciò avviene per un preciso disegno del Dio che è Signore della storia e del tempo, il quale desidera instaurare il suo Regno di pace e di giustizia, dando così inizio ai cieli nuovi e alla terra nuova da lui preparati (cf. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1).
Tutto questo coinciderà con la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo, il Signore Gesù Cristo:“Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (cf. Dn 7,13-14).
 Spesso i cristiani leggono il tempo in maniera mondana, come un continuo omogeneo che esclude ogni attesa, un eterno presente in cui tutto può avvenire tranne la venuta gloriosa del Signore Gesù.
Di fronte a questo atteggiamento rassegnato e fatalistico occorre testimoniare che la parusia del Signore fa parte integrante del mistero cristiano, perché egli ne ha parlato con chiarezza.
Sì, il Figlio dell’uomo, cioè Gesù che è già venuto nella fragile carne umana, nato da Maria e morto in croce, Risorto e Vivente, verrà nella gloria, come egli stesso ha dichiarato con un’autorevolezza frutto della sua assiduità con Dio: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
Tutta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto aspettando la sua trasfigurazione (cf. Rm 8,19-22), e la venuta finale del Signore esaudirà in pienezza anche questa supplica, di cui i cristiani si fanno voce quando invocano: “Vieni, Signore Gesù! Maranà tha!” (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22)…
Davvero la venuta del Signore non nega la storia, ma vuole trasfigurare il nostro mondo.
 Si spiega in questo modo la quotidianità dell’immagine utilizzata da Gesù per ammonire i discepoli: “Dal fico imparate la parabola: quando il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il Figlio dell’uomo è vicino, alle porte”.
L’annuncio della venuta del Signore non aliena il credente dall’oggi, anzi gli chiede la capacità di aderire al presente, di amare la terra in cui vive.
Cercare le cose dell’alto restando fedeli alla terra: così si declina la vigilanza, quell’atteggiamento di consapevole attesa della venuta del Signore richiesto con insistenza da Gesù a conclusione del suo discorso (cf. Mc 13,33-37).
Vigilanza motivata anche dall’umile ammissione dello stesso Gesù: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”.
Il Figlio dell’uomo verrà in un’ora che è nascosta in Dio, dunque occorre essere sempre pronti. Gesù ci ha infatti avvertiti: “Se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo viene(Mt 24,43-44).
Insomma, non è il “quando” che conta, bensì la fiduciosa certezza di un futuro orientato dalla promessa del Signore: “Io vengo presto!” (Ap 22,20)…
I cristiani sono “coloro che amano e attendono la manifestazione gloriosa del Signore Gesù Cristo”(cf. 1Cor 1,7; 2Cor 4,8) e affrettano con la loro attesa perseverante tale evento (cf. 2Pt 3,12). Questo è il loro tratto specifico nella storia e nella compagnia degli uomini. Ecco perché un grande padre della chiesa, Basilio, ha scritto con profonda intelligenza spirituale: “Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene”.

( Enzo Bianchi )

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