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Vangelo Domeniche e Festività

La vedova della XXXII Domenica: immagine viva e profonda della chiesa.

Rispetto al testo parallelo di Luca 21,1-4 il racconto di Marco sulla vedova è più ricco di particolari. Soprattutto mi sembra interessante il rapporto tra il ver.41 e il ver.42:

  •   al 41 Gesù osserva la folla,
  •   al 42 avviene una cosa nuova e diversa: l’arrivo della vedova povera che getta pochissimo nel tesoro.

E’ un evento che nessuno coglierebbe e che Gesù commenta mettendone in evidenza la grandezza, l’unicità! Al punto che mi sembra Egli voglia forse proporci un’immagine viva e profonda della Chiesa, cioè della comunità che si raccoglie intorno a questo Dio che si è fatto povero, e che si inabisserà in un’obbedienza fino alla suprema povertà della morte, e della morte del malfattore.
Mi piace chiamare queste parole di Gesù la “strana matematica del Signore”.
Notiamo il rilievo di quel “tutti” che indica la realtà “inevitabile” della storia.
In quel tesoro, come in ogni “luogo” – non solo fisico – della vita, si getta l’ “in più”.
In questo senso lei è invece, assolutamente, “un fatto nuovo”.  E questo fatto Gesù lo interpreta con tranquilla sicurezza: “ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri”.
Penso possiamo considerare queste parole non solo come sentenza di valore morale del gesto, ma forse proprio come reale enorme potere di quelle povere monetine, che “renderanno” molto di più delle “molte” monete gettate dai tanti “ricchi” che, come dicevo, non sono tali per una valutazione patrimoniale, ma perché in ogni modo gettano nel tesoro “del loro superfluo”(ver.44).
E’ allora importante mettere a confronto le due diverse “fonti” delle offerte.
   –   La “fonte” dei ricchi è “il loro superfluo”.
   –  Lei invece prende “dalla sua miseria”
E’ importante che le due fonti siano, alla lettera, espresse con la stessa preposizione di provenienza: “dal loro superfluo”-“dalla sua miseria”.
Ed è importante anche considerare il termine reso in italiano con “miseria”, che vorrebbe dire una fonte ben misera! Ma qui è ben di più! Il termine dice infatti non solo “poca roba”, ma addirittura “mancanza”!
 Per compiere il suo gesto la vedova povera deve addirittura fare una specie di “miracolo”, perché se uno ha niente, da dove prende quelle due povere monetine?
Lei invece, immagine sublime di un’umanità e di una Chiesa “grande signora”, diventa capace di un gesto impossibile!   ( Giovanni Nicolini )
 

XXXI Domenica del T.O. " Amare al di là di ogni limite "

Volete il segreto della vera felicità? Della pace autentica e profonda? Volete risolvere di colpo ogni difficoltà nei rapporti col prossimo?
Decidete da questo istante di amare le cose e gli uomini come Gesù li ha amati, cioè fino al sacrificio di voi stessi. Amate senza contabilità.
Se uno è bello e simpatico amatelo, ma se un altro è antipatico amatelo con la stessa forza.
Se uno vi saluta e vi sorride salutate e sorridete, ma se un altro vi pesta i piedi sorridetegli lo stesso. Se uno vi fa del bene rin­graziatene il Signore, ma se un altro vi calunnia, vi perseguita, vi maledice, vi picchia ringraziatelo e tirate avanti.
Non dite più: «Io ho ragione» ma solo: «Io amo e devo amare». E questo il tipo di amore che Gesù ha voluto insegnare, amore che tutto trasforma, vivifica, feconda, risolve.
E certo che amare non è una cosa facile, e vorrei dire a coloro che decidono di mettersi su questa strada: «Fatevi coraggio e siate saldi», perché il viaggio sarà lungo e vi impegnerà fino al sangue.
Beato colui che arriverà alla meta qualche minuto prima di morire. E questa la grazia che chiedo ardentemente al Signore ogni giorno: che io ami e impari ad amare come Lui ha amato!
Amare come Gesù a Betlemme, che fugge esule piuttosto di servirsi della sua onnipotenza divina per uccidere Erode.
Amare come Gesù a Nazareth, dove vive come l’ultimo degli uomini senza accampare diritti per la sua divinità, incarnata e nascosta.
Amare come Gesù dinanzi alla folla affamata, come Gesù nel Getsemani, dinanzi ai tribunali.
Amare come Gesù sul Calvario, quando, già soffocato dagli spasmi della morte, griderà ancora al Cielo l’ultima sua preghiera: «Padre, perdona loro».
Questo è il capolavoro della vita sia umana che eterna: amare al di là di ogni limite. ( Carlo Carretto )

La vera profezia di Cristo è la resurrezione dai morti

Nella commemorazion dei defunti riportiamo da “ Deserto nella città” di Carlo Carretto ” alcuni brani  tratti da” Domenica –  Resurrezione profezia di Gesù
… Non è difficile convincersi che la vera profezia del Cristo è la Resurrezione dai morti.
Penso sia davvero il sunto del suo insegnamento, del suo annuncio reso autentico e terribilmente vero del fatto che fu Lui a risorgere per primo, aprendo una via definitiva attesa da secoli con lo spasimo di tutte le morti.
Basta vedere un animale morire dilaniato nelle sue carni, basta vedere un uomo agonizzare per capire che sulla natura tutta quanta pesa un interrogativo insopportabile, una tragedia senza limiti, una oscurità totale.
Nessuno ha saputo dare una risposta.
Le parole sono fuori posto quando da un corpo vivo esce un lamento doloroso.  Tutt’al più si può dire con Giobbe:
Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse:
è concepito un uomo(Giobbe 3, 3).
La creazione è stata molto paziente nel sopportare la morte per tante generazioni prima che venisse Lui a spiegare le cose.
Certamente era aiutata dallo Spirito che abitava in essa per avere la forza di attendere perché altrimenti non sarebbe stata capace.
La pazienza di morire fa onore ai fiori, agli uccelli, alle volpi, all’uomo.
Io mi commuovo sempre davanti ad una formica che resta immobile schiacciata dalla mia sbadataggine o davanti a un coniglio che mi guarda con gli occhi vuoti mentre io con un coltello gli ho aperto la gola per preparare il pranzo ai miei fratelli.
Guai se cerco di capire!
Meglio vivere tra le pagine di un libro di favole dove vita e morte si incontrano come cose naturali e senza farci paura.
Anche Giovanni non fa paura quando presenta la morte con l’immagine del chicco di grano che muore.
In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto(Giovanni 12, 24).
L’immagine è talmente viva che ha il potere di distrarti dalla visione di questo piccolo chicco che si disfa nella morte. La tua attenzione viene subito portata a contemplare la meraviglia di ciò che capita dopo: nel sole sono apparsi trenta, quaranta chicchi, frutto di quello morto a cui non pensi più.
Proprio come capita alla donna – ed è sempre di Giovanni il paragone – che “quando deve partorire soffre ma poi dimentica le doglie perché è nato al mondo un uomo(Giovanni 16,21).
Il Vangelo ci sta preparando alla grande spiegazione del perché del dolore e della morte e ci rivela il mistero nascosto nei secoli, “la vita nasce dalla morte” .
Quando avremo visto spuntata tutta la vita dimenticheremo la paura provata sul cammino della morte.
È inutile nascondercelo.
Il Vangelo è escatologico.
Nelle sue tappe intermedie ti lascia col cuore sospeso. È per questo che solo i bimbi che sanno dare fiducia possono vivere senza morire di paura.
Sì, la vita nasce dalla morte, la resurrezione spunta su una distruzione totale.
Ma a guardarci bene dentro scopriamo una cosa molto importante, direi fondamentale.
La resurrezione non è la riesumazione di un cadavere È altra cosa… state tranquilli.
Ve lo immaginate, ad esempio, il vostro corpo giunto, a forza di pillole, e di attenzioni, a 95 anni e che grida con la sua debolezza, la sua bruttezza di scomparire, vederselo ricomparire in piedi tale e quale dopo la resurrezione?
Che disastro!
Se la forza di Dio nella resurrezione fosse quella di riesumare un cadavere, gli direi umilmente ma sinceramente, a proposito del mio: “Signore, per favore, lasciami nella terra e che più nessuno veda la mia faccia”.
Semmai, se proprio vuoi servirti del letame del mio corpo, fagli spuntare sopra un fiore.
E basta!
No, fratelli e anche sorelle… che alla bellezza ci tenete ancora di più… la resurrezione non è la riesumazione di un cadavere anche se bellissimo come lo può essere quello di una bella ragazza che ha avuto la fortuna di morire a venti anni o quello dell’ adolescente amico del Pascoli  che il poeta così ricordava sul letto di morte:
Meglio morire con la testa bionda
che poiché giacque sul guanciale
ti pettinò quei bei capelli ad onda
tua madre, adagio per non farti male“.
C’è qualcun altro che pettinerà i nostri capelli ridotti a lesine dure dalla sofferenza della vita e bagnati dal sudore della nostra morte. 
È il Dio della Vita che si avvicina alla nostra morte resa più morte dal tempo, dal peccato, dalle esperienze del dolore e alitando come la prima volta nella genesi dell’universo ci dirà: “lo faccio nuove tutte le cose” e quindi faccio nuovo anche te!
Ti faccio come hai desiderato tu.
Tu desideravi amare e non ci riuscivi: ora ci riuscirai.
Tu volevi la castità e hai pianto sui tuoi fallimenti? Eccoti, ora, ti faccio casto.
Hai sognato di salvare tutti gli uomini e ti sei svegliato ogni giorno umiliato dal tuo egoismo e dalle tue paure: ecco ti faccio capace di comunicare con tutti i poveri dell’universo e di vivere finalmente il dono di te.
La resurrezione non è la riesumazione del mio cadavere. Quello non esiste più come il chicco di grano caduto nella terra.
Esso semmai è solo più il segno di un’ altra cosa che sta spuntando: la memoria di una storia vera, la mia, una continuità nella quale il meglio di me, la coscienza, ha trovato il suo ambiente e ha sviluppato la sua divina realtà a figlio di Dio.
La resurrezione è il trionfo di Dio in noi, la prova della sua potenza creatrice, la capacità di rinnovare tutte le cose.
È straordinario!
Isaia l’aveva profetato:
Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuove terre.
Non si ricorderà più il passato
non verrà più in mente
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare(Isaia 65, 17)
e Giovanni visto coi suoi occhi incantati di amore:
  Io vidi la città santa, la nuova Gerusalemme
scendere dal cielo da Dio
ed era bella come una sposa
adorna per il suo sposo” (Atti 21,2).
È questo il mio corpo risorto dai morti, la nuova Gerusalemme che va incontro al suo Dio, i Cieli nuovi di Isaia, la Terra divenuta possesso di Dio.  ….

I poveri «poveri» sono quelli che non lasciano nome, sono gli anonimi; l'immensa schiera di coloro che non hanno nome e su cui l'Onnipotenza di Dio stende la sua mano.

Nella festività di tutti i Santi, riportiamo una piccola riflessione di P. Ernesto Balducci, tratta da ” il mandorlo e il fuoco”
(Ernesto Balducci è stato  una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II. Fu legato a Giorgio La Pira, David Maria Turoldo, Lorenzo Milani, Danilo Cubattoli, Silvano Piovanelli, Mario Gozzini, Bruno Borghi, Raffaele Bensi e molti altri cattolici democratici e “di sinistra” vissuti a Firenze tra gli anni cinquanta e gli anni novanta.)
“Personalmente, quando io cerco di fare la mia, professione di fede, usando un sillabario che sia il più possibile conforme all’indole mia (mi permetto questa confidenza), non oso tanto alzare gli occhi verso una Maestà divina che non so nominare.
Ho sempre .paura, quando parlo di Dio (o quando si parla di Dio), che ci si guardi allo specchio, e si parli di Dio in realtà parlando di noi e dando dimensioni assolute ad atteggiamenti ed espressioni del nostro spirito.
 In genere si nomina Dio senza sapere che quel nome non vale: è idolatria: il mistero del Vangelo sta tutto in una specie di rovesciamento che ci obbliga a verificare la nostra fede non già su un Dio che non vediamo e che può essere, perciò, un luogo di inganno, di auto-inganno, ma sull’uomo.
 E allora la mia professione di fede la misuro sulla quantità di convinzione con cui riesco a dire: «Beati i poveri, i miti, i misericordiosi ecc. ».
Se io sono veramente convinto che beate sono le persone che nella società non contano, e che quindi la linea di Dio, questa linea luminosa che, sotto la coltre della storia, corre verso l’eternità, passa soprattutto tra costoro, se io son convinto di questo io sono nella convinzione morale che la mia fede nel Signore regge, è viva.
 E per quanto mi riguarda io mi devo domandare in che misura io cammino nel tempo regolandomi su questa certezza: che la vera beatitudine, cioè la partecipazione anticipata alla gloria descritta dalla liturgia dell’ Apocalisse, io la vivo nell’esperienza diretta di questa convinzione.
Vorrei dire, senza nessuna intenzione malevola, che i veri santi non sono i santi nominati, sono quelli senza nome.
 Perché, in fondo, chi è stato glorificato, chi è stato seguito, ha sempre avuto un po’ di potere: non è stato «un povero» del tutto.
I poveri «poveri» sono quelli che non lasciano nome, sono gli anonimi; l’immensa schiera di coloro che non hanno nome e su cui l’Onnipotenza di Dio stende la sua mano.
 E questa simpatia organica per i reietti, i semplici, i senza peso specifico, quelli a cui nessun costruttore di società stenderebbe la mano, perché senza storia, questa predilezione scandalosa del Povero di Nazareth per gente del genere: ecco il pungolo che mi contesta.
 Se io penso ai santi (come nel patriottismo di altri tempi si pensava agli eroi dei nostri Pantheon nazionali) come a una gloria della Chiesa io li penso con categorie di potere.
E in fondo mentisco,  violo il mistero di un Dio che si fa beffa di queste nostre classificazioni spirituali.
La santità si estende come un continente invisibile nella società. E noi non abbiamo planimetrie adatte a stabilire dove è il Regno di Dio.
Questo è il mistero.
Non è solo il mistero che riguarda me o che io avverto quando mi interrogo su chi sono e in che senso sono figlio di Dio, ma è un mistero anche nel senso che non è dato discernere quali siano i santi di Dio tra di noi.
Non è detto che siano quelli che vanno in Chiesa, è probabile che no; non è detto che siano quelli che conoscono per filo e per segno i dogmi della nostra fede, può darsi che no.
Il Signore nella sua solenne risposta (come vedete) non fa questioni di dogmi, di pratiche.
La vera storia della fede non si racconta perché se si racconta non è più la vera storia.
La vera storia dei santi non è l’agiografia convenzionale, perché essa è scritta nel libro chiuso da sette sigilli che sarà aperto solo quando vedremo Dio.
Questo non è un modo per giocare col mistero, per annullare le determinazioni di cui la ragione ha bisogno per ragionare sulla società; è un modo di trascendere i nostri discorsi, pur necessari, sulla società, sui progetti dello Stato, sui progetti di giustizia sociale, di trascenderli in una considerazione ultima che ci r-guarda. Quando pensiamo ai nostri morti (come avviene in questi giorni), noi cogliamo la nostra grande tribolazione, la nostra estrema povertà, la fragilità di cui ci dimentichiamo ma che ci viene rigettata in faccia.
Siamo poveri, provvisori.
E questa condizione la dobbiamo accogliere, al cospetto di Dio, con fiducia filiale. In questo modo scendiamo, vivendo la fede, in profondità dove il sì e il no, la luce e le tenebre si incontrano, nei loro terribili estremi.
Attraverso questo discorso è lecito guardare la gloria dei cieli con autenticità.
È molto facile che il discorso sui poveri, sui miti … diventi un discorso di consolazione (anche legittima, in parte) estraneo, per così dire, dal resto delle verità.
Una volta che ci convinciamo che questa è la via, allora siamo tentati di guardare gli altri, cioè i prepotenti, i ricchi, i gaudenti … e così via con una specie di rifiuto, di distacco.
 Si cadrebbe nell’orgoglio.
La fede ci fa certi – ecco un punto importante – che a questa beatitudine dei poveri, dei miti, dei pacifici … sono chiamati tutti gli uomini.
Per cui di fronte ad un prepotente, non mi basta resistere con mitezza alle sue angherie e alle sue malversazioni.
Io devo nello stesso momento essere convinto che questo prepotente è un infelice che aspira alla mitezza.
Se di fronte ad un ricco io mi limito ad inveire contro la sua ricchezza, non sono ancora nella pienezza del segreto di Dio. Devo essere convinto che questo ricco è un disgraziato che fa infelici gli altri e che non ha scoperto la beatitudine dell’essere povero.
 Le qualità espresse dalle beatitudini, sono qualità necessarie alla pienezza del genere umano. Allora, mentre noi ci uniformiamo (nel senso ricco della parola) a questo modello venutoci dal di fuori (le beatitudini del Vangelo) noi rappresentiamo, per così dire, l’intera umanità, trasciniamo verso la gloria anche coloro a cui non è apparsa con evidenza e forza la luce della Rivelazione.”

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