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Vangelo Domeniche e Festività

Sperimentare la beatitudine è una gioia profonda.

Matteo introduce il lettore ad ascoltare le beatitudini pronunciate da Gesù con una ricca concentrazione di particolari.
Innanzitutto viene indicato il luogo nel quale Gesù pronuncia il suo discorso: “Gesù salì sulla montagna”(mt 5,1). 
 Per tale motivo gli esegeti lo definiscono “discorso della montagna” a differenza di Luca   che    lo    inserisce    in   un   luogo pianeggiante (Lc 6,20-26).
L’indicazione geografica della “montagna” potrebbe alludere velatamente a un episodio dell’AT : quando Mosè promulga il decalogo sulla montagna del Sinai.
Un altro particolare che colpisce è la posizione fisica in cui Gesù pronunzia le sue parole: “e, messosi a sedere”. Tale atteggiamento conferisce alla sua persona una nota di autorità. 
Lo circondano i discepoli e le “folle”: un particolare che intende mostrare che Gesù nel pronunziare tali parole le ha rivolte a tutti e che sono da considerarsi attuabili per ogni ascoltatore.
Il discorso di Gesù non presenta degli atteggiamenti di vita impossibili, né che essi siano diretti a un gruppo di persone speciali o particolari, né mirano a fondare un’etica esclusivamente dall’indirizzo interiore. Le esigenze propositive di Gesù sono concrete, impegnative e decisamente radicali

***

Essere poveri nello spirito prima ancora di designare un rapporto con i beni, indica la condizione di chi è libero nel cuore a tal punto da sentirsi povero ed è talmente povero nel cuore da sentirsi libero di accettare la propria realtà, libero di accettare le umiliazioni e di sottomettersi ogni giorno agli altri.
Essere capaci di piangere significa conoscere le lacrime che sgorgano non per ragioni psicologiche o affettive, ma perché il nostro cuore freme meditando sulla propria e altrui miseria.
Assumere in profondità la mitezza significa lottare per rinunciare alla violenza in ogni sua forma, nel contenuto come nello stile.
Avere fame e sete che regnino la giustizia e la verità significa desiderare che i rapporti con gli altri siano retti non dai nostri sentimenti ma dall’essere, dal volere e dall’agire di Dio.
Essere puri di cuore è avere su tutto e su tutti lo sguardo di Dio, partecipando della sua makrothymìa, del suo pensare e sentire in grande.
Praticare la misericordia e fare azioni di pace significa essere capaci di dimenticare il male che gli altri ci hanno fatto, a immagine di Dio che non ricorda i nostri peccati (cfr. Is 43,25).
Essere perseguitati e calunniati per amore di Gesù significa avere una prova che si segue davvero il Signore, perché non tutti dicono bene di noi (cfr. Lc 6,26).
Chi si trova in queste situazioni, chi lotta per assumere tali atteggiamenti, ascoltando le parole di Gesù può sentirsi in comunione con lui e così sperimentare la beatitudine: è una gioia profonda, una gioia che si può provare anche piangendo, ma una gioia che niente e nessuno ci può rapire (cfr. Gv 16,23). Allora davvero “noi non siamo soli, ma ci sentiamo avvolti da una grande nube di testimoni” (cfr. Eb 12,1) che ci hanno preceduto, i santi». (da Gesù, Dio-con-noi, Compimento delle Scritture, Il vangelo festivo (A), Ed. San Paolo 2010, p. 227-228).

***

Finché l’uomo non svuota il suo cuore, Dio non può riempirlo di sé.
 Non appena e nella misura che di tutto vuoti il tuo cuore, il Signore lo riempie.
 La povertà è il vuoto non solo per quanto riguarda il futuro, ma anche per quanto riguarda il passato.
Nessun rimpianto o ricordo, nessuna ansia o desiderio.
Dio non è nel passato, Dio non è nel futuro: Egli è la presenza!
Lascia a Dio il tuo passato, lascia a Dio il tuo futuro.
La tua povertà è vivere, nell’atto che vivi, la Presenza pura di Dio che è l’Eternità» (Divo Barsotti)

XXX Domenica del T.O. Pasqua di Bartimeo.

( Da un commento di Tonio Dell’Olio,  collaboratore di Don Tonino Bello , coordinatore di Pax Christi)
Gridare più forte, ecco cosa si deve fare.
 Gridare più forte anche se non sempre (quasi mai) questo significherà alzare la voce.
 D’altra parte quello che Bartimeo vuole non è certo di disturbare, prevaricare o sopraffare come avviene nei dibattiti dei salotti televisivi. Il grido qui si trasforma in preghiera perché la voce possa raggiungere l’Eterno, là dove non conta il potere (o il volume!) di chi urla, quanto la sincerità di cuore, la povertà che svuota le mani per allargare gli spazi del cuore.
Conta la voce di chi riconosce in quel viandante il “Figlio di Davide”.
Gesù che passa per le strade della Palestina può suscitare il fascino del personaggio del momento o incuriosire la fantasia di qualcuno, poteva arrovellare le elaborazioni delle scuole rabbiniche pronte alla radiografia teologica, poteva persino trasportare emotivamente a un’adesione momentanea… ma per Bartimeo no. Per Bartimeo il nazareno è il Figlio di Davide, ha potere di salvare, di schiodare gli altri dalla croce e di indicare la via per il cielo.
Riconoscere il Figlio di Davide è fiutare presenza di Messia, fare un salto in avanti senza punto d’appoggio e di caduta, compromettersi senza via d’uscita.
Da questo punto di vista forse Bartimeo è l’unico a vederci e a vederci chiaro in quella folla che circonda e stringe il passaggio di Gesù.
A chiamare Gesù Figlio di Davide, nei Vangeli sono soltanto i poveri che chiedono un segno e i bambini che osannano.
E che questo appellativo fosse rischioso e creasse qualche scandalo lo testimonia il rimprovero che i saggi dell’epoca rivolgono a Gesù: “Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono e gli dissero: “Non senti quello che dicono?” (Mt 20, 14-16 e paralleli). Anzi gli stessi farisei avevano la certezza che quel riferimento fosse esplicitamente messianico: “Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: ‘Che ne pensate del Messia? Di chi è figlio? ‘. Gli risposero: ‘Di Davide’” (Mt 22, 41-42).
Questo cieco che siede lungo la strada fa una professione di fede ardita, al limite dell’eresia. La sua espressione non è frutto di studi teologici rigorosi e non aderisce ad una scuola che parteggia per Gesù: Bartimeo intuisce, si lascia ispirare, si lascia investire dal dono e grida e prega e confessa… ed è già felice dell’incontro riconoscendosi umilmente peccatore.
 Quell’invocazione: “Abbi pietà di me!” è fiorita sulle labbra di milioni di credenti dopo di lui.
 È la stessa che mille e mille rappresentanti di religioni differenti avrebbero adottato coscienti della superiorità assoluta di Dio e della sua signoria sulla storia e sugli umani.
 Le parole di supplica con cui Bartimeo si rivolge a Gesù sono cariche di sapienza antica. Esse stanno esattamente agli antipodi dell’arroganza e della saccenza con cui i ricchi si rapportano alla vita.
 Siano ricchi di beni o di sapere, di salute o di potere… difficilmente chiederanno pietà per sé. Sono troppo pieni di sé per far spazio e dar credito all’Altissimo, per riconoscerlo all’opera nel mondo e nella propria vita.
Alla cattedra di Bartimeo che grida più forte di quelli che vogliono farlo tacere sono molti gli insegnamenti che apprendiamo.
Il coraggio che sconfigge certe nostre incertezze nel riconoscere il Cristo come Signore della storia, unico Signore della nostra storia è una lezione che possiamo imparare soltanto dai poveri, dagli anawim come li chiama la Scrittura.
Don Tonino Bello s’era imbattuto un giorno in una povera mamma che abitava in una baracca di un quartiere misero alla periferia di Buenos Aires e, tra le altre cose scorse un piccolo libro del Vangelo sul tavolo della cucina. Se ne compiacque con la signora che le rispose: “Nuestra sola esperanza por nuestra pobreza”, l’unica speranza per la nostra povertà.
A questa fede che proviene dai bassifondi della storia siamo chiamati ad attingere se vogliamo riscoprire la gioia del credere e scorgere il passaggio del figlio di Davide lungo le nostre strade. Dopo tutto Gesù si presentava in tutto simile agli uomini, uno tra gli altri, scoprirne il volto è operazione che riesce solo a chi ha occhi attenti e voce pronta.

XXIX Domenica del T.O.: "chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti"

La richiesta dei fratelli Giacomo e Giovanni a Gesù, di sedere uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra nella sua gloria, suona subito come palesemente impertinente; addirittura stupisce, anzi minaccia di suscitare indignazione. Di fatto, già allora gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Gesù non si sdegnò, né con i due fratelli né con gli altri dieci. Corresse tuttavia gli uni e gli altri.
La richiesta è sbagliata, certo; e tuttavia per quell’errore Gesù non scomunica i due fratelli; li corregge invece con dolcezza, come si correggono i bambini. Che i bambini chiedano cose sbagliate accade abbastanza spesso; essi per lo più non sanno bene quello che chiedono. Proprio questa fu la prima risposta di Gesù ai due fratelli: Voi non sapete ciò che domandate.  …
Potete bere il calice che io bevo?
Subito gli rispondono di sì, senza neppure cercare di capire che cosa Gesù volesse dire con quella espressione oscura; troppo forte e perentorio è il loro desiderio di ottenere comunque quello che chiedono. Gesù risponde che avranno quello che non hanno chiesto; quanto ai primi posti, non sta a Gesù decidere; è lasciato alle mani di Dio.
 II desiderio buono non è quello di avere un posto accanto a Gesù; ma quello di camminare al suo seguito. Se vi occupate del posto, è inevitabile che litighiate; vi occupate infatti di ciò che è esteriore.
Finché al vertice dei vostri pensieri c’è quello che sta fuori, è inevitabile che tra voi accadano litigi.
Gesù non si sdegnò con i due; capì che erano ancora come bambini.
Neppure si sdegnò con gli altri dieci.
 Si sdegnarono però loro con i due fratelli, non avendo compreso il carattere infantile della loro richiesta. Erano infatti anche loro infantili. Gesù non fece alcuna differenza tra loro; li chiamò infatti tutti a sé e li corresse con pazienza. …
Gesù dunque li chiamò tutti intorno a sé e li istruì.
Per istruirli, prese spunto da ciò che accade nelle nazioni, e presso i capi delle nazioni; essi le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere.
Il comando dunque assume la forma del dispotismo.
 Appunto per differenza rispetto a quel che accade presso le nazioni Gesù fissa la legge nuova, che deve vigere tra i suoi discepoli: chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Alla base della legge nuova sta la testimonianza di Gesù stesso, il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.
Nel suo racconto della cena Giovanni riferisce della lavanda dei piedi; avete capito quello che vi ho fatto? – chiede Gesù dopo avere compiuto quel gesto -; il comandamento nuovo dell’amore assume appunto la forma del comandamento di servire; e la norma del servizio è quella disposta da Gesù stesso.
Il Signore, paziente con i suoi, abbia pazienza anche con noi, corregga le nostre richieste arroganti e inconsapevoli; ci insegni ad amare il servizio e la sequela di lui piuttosto che un posto accanto a lui.
 «Tra voi, però, non dev’essere così!»  Quindi, non è questione semplicemente di umiltà piuttosto che di superbia. Secondo me, non è questo il centro del Vangelo odierno. Si tratta piuttosto di credere che ci si possa effettivamente realizzare da uomini e donne del nostro tempo, impostando uno stile di vita conforme alla logica dell’amore evangelico (cf 1Cor 13), ossia alla logica di chi ama, serve, si umilia e condivide, perdona… come Gesù.
 In gioco è il credere che si possa essere felici oggi, cercando di vivere con Gesù e come lui. ( C.M. Martini)

XXVIII Domenica del T.O. – Conoscere intimamente Gesù per seguirlo.

 …Ci sono delle resistenze, e talora occorrono anni per decidersi ad accogliere la chiamata del Signore.
Il «seguimi» può addirittura incontrare un rifiuto, come accade nel brano di Vangelo di Domenica prossima, XXVIII del T.O. (Mc. 10,17-30)
[ Quel ” tale che gli corse incontro” ] pone al Maestro, mettendosi in ginocchio pieno di rispetto, una prima domanda sincera che nasce da una retta visione di fede: «Maestro buono, che devo fare per avere la vita eterna?».
C’è in lui una disponibilità, un’apertura molto grande. Non è una persona qualunque, ha una grande rettitudine, sente l’esigenza del cuore umano di relazionarsi in maniera profonda con la verità di Dio.
Gesù gli risponde di osservare i comandamenti (cf v. 19).
E il giovane replica: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (v. 20).
Gesù, allora, «fissatolo, lo amò»: lo amava anche prima, ma qui esprime quell’amore personale che riflette l’infinito amore di Dio per ciascuno di noi. Per questo gli chiede una missione nuova: «Una cosa sola ti manca: va, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (v. 2 1).
Il giovane comprende benissimo che gli viene affidato un compito, che gli è chiesto non soltanto di dare quello che ha ai poveri, ma di condividere la sorte del Maestro, la sua vita di predicatore itinerante, contestato e respinto.
 L’invito di Gesù lo sconvolge e «se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (v. 22).
 Avrebbe potuto dire: «Ci penserò, rifletterò»; oppure: «Dammi la forza di seguire questa tua parola». Invece si chiude in se stesso perché ha molti beni. Quindi la tristezza ha invaso il suo cuore; ha intuito che, nonostante l’amore con cui Gesù l’ha fissato, egli non riesce a giocarsi per paura, per viltà, per pigrizia.
E’ un episodio drammatico che ci fa pensare.
 Ciascuno di noi ha molti beni, anche se non ha un conto in banca: sono i talenti che vorremmo esprimere, i progetti che facciamo, le amicizie, e, al fondo, la nostra autonomia, il voler disporre liberamente di noi stessi.
Quando Gesù ci chiede di obbedire alla sua parola, tutto è messo in gioco, non per essere buttato a mare, ma per venire valorizzato nell’obbedienza alla parola dei Signore.
Domandiamo a Gesù la grazia di comprendere fino in fondo la serietà della parola con cui ci interpella.

( Carlo Maria Martini )

 

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