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Vangelo Domeniche e Festività

XVI Domenica del T.O. – L’accoglienza dello straniero diviene accoglienza di Dio stesso

Marta e MariaL’ospitalità per i popoli orientali è tutto, e questo ce lo ricorda anche la prima lettura di questa domenica quando ci racconta della visita dei tre angeli presso la tenda di Abramo e Sara alle Querce ci Mamre.
Un ospite va accolto nella maniera più bella e senza risparmio.
 L’accoglienza dello straniero diviene accoglienza di Dio stesso .
Accogliere lo straniero significa aprirsi alla rivelazione di cui lui è portatore. Ospitare è creare uno spazio per l’altro e dare del tempo all’altro. E’ condividere la propria casa e il proprio nutrimento. Più in profondità, significa fare di sé uno spazio per l’altro attraverso l’ascolto.
Maria che ascolta la Parola di Gesù è immagine di un’ospitalità che non si limita ad accogliere nelle mura di una casa, ma che fa della persona stessa una dimora per l’altro. (Da “Eucarestia e Parola – Comunità di Bose”)
Per molti secoli Maria è stata vista come simbolo della vita spirituale … dice Luca, «seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola».  Questa notazione è sempre piaciuta molto nel corso di una tradizione cristiana tutta elaborata da uomini chierici:.. tanto che, nell’impatto istintivo sul lettore-ascoltatore, il fatto di essere ai piedi, insomma l’abbassamento, finisce col predominare rispetto all’ascolto e alla Parola.… In questo passo Gesù, lodando Maria che trascura i suoi doveri casalinghi, a preferenza della sorella che ad essi invece si immola, rigetta in modo solenne e definitivo gli schemi patriarcali, apre anche alle donne, nella logica del Regno, gli spazi dello studio e della riflessione spirituale.
Non vi è dubbio che, secondo l’evangelista, anche Marta ama moltissimo Gesù ed è felice della sua presenza; ma il suo amore e la sua gioia si esprimono col moltiplicare i servizi … compiendo i suoi pretesi doveri domestici con efficienza e dedizione, ma anche con segreta sofferenza e comunque, a un certo punto, con insofferenza palese. 
Il fatto è che i molti servizinon sono ancora «il servizio»: quello che è vocazione comune per uomini e donne se vogliono essere discepoli e discepole di Gesù «venuto per servire»  ( Lilia Sebastiani )
La tensione tra Marta e Maria non è un semplice litigio familiare, ma riveste una valenza ecclesiale.

  • C’è per Marta come sempre nella chiesa, la possibilità di un servizio che diventa totalizzante, che distrae dall’essenziale, che chiude all’ascolto della Parola e se ne distacca.
  • C’è la possibilità di un servire che diventa cieco, perché non vede altro che se stesso.
  • C’è la possibilità di una generosa attività per gli altri che diviene cattiveria e prontezza nell’accusare: “Mi ha lasciata sola a servire, dille che mi aiuti”.  

Non basta servire; bisogna essere servi(Da “Eucarestia e Parola – Comunità di Bose”).…
Nel suo affaccendarsi e darsi da fare, Marta rischia di dimenticaree questo è il problema – la cosa più importante, cioè la presenza dell’ospite, che era Gesù in questo caso. … E l’ospite non va semplicemente servito, nutrito, accudito in ogni maniera. Occorre soprattutto che sia ascoltato. … Perché l’ospite va accolto come persona, con la sua storia, il suo cuore ricco di sentimenti e di pensieri, così che possa sentirsi veramente in famiglia. Ma se tu accogli un ospite a casa tua e continui a fare le cose, lo fai sedere lì, muto lui e muto tu, è come se fosse di pietra: l’ospite di pietra. No. L’ospite va ascoltato.  ….
 E non dobbiamo dimenticare che nella casa di Marta e Maria, Gesù, prima di essere Signore e Maestro, è pellegrino e ospite. …. Per accoglierlo non sono necessarie molte cose; anzi, necessaria è una cosa sola: ascoltarlo – ecco la parola: ascoltarlo -, dimostrargli un atteggiamento fraterno, in modo che si accorga di essere in famiglia, e non in un ricovero provvisorio”.  ( Papa Francesco )
Gesù non condanna Marta perché lavora … ma la mette in guardia dal lasciarsi prendere dall’affanno, fino a dimenticare la sua presenza.  …. Le donne non sono solo chiamate, come tutti i discepoli, al servizio, alla diakonía, ma innanzitutto all’ascolto: l’opposizione tra Marta e Maria rivelata da Gesù non è un’opposizione tra attività e contemplazione, ma tra non ascolto e ascolto del Signore.  ( E. Bianchi )
 
 

XV Domenica del T.O. – La maggior parte dei nostri peccati, delle nostre contraddizioni all’amore fraterno, non è originata da odio o cattiveria, ma si tratta di azioni mancate per indifferenza.

349x251 Immagine in evidenzaIl brano evangelico di questa domenica ci mette in guardia dal pensare che la misericordia sia solo un sentimento, una commozione profonda che ci coinvolge alle viscere e al cuore. Certamente essa è originata da tale sentimento, ma deve poi tradursi in un’azione, in un comportamento, in un fare misericordia.
L’insistenza in questa pagina sul verbo “fare”, e in particolare la risposta finale del dottore della Legge (“Chi ha avuto compassione di lui”), seguita dall’approvazione di Gesù (“Va’ e anche tu fa’ così”), ci illuminano su questa pratica della carità verso i nostri fratelli e le nostre sorelle. ( E. Bianchi )
La parabola evangelica, prima di descrivere i gesti del samaritano, parla di una misericordia, di una tenerezza divina, che ha attratto e riempito il cuore del samaritano. ( C. M. Martini )
 Stiamo sempre seguendo Gesù nella sua salita a Gerusalemme, ed ecco un altro incontro: questa volta tra Gesù e un dottore della Legge, un giurista (nomikós). Questo esperto della Torà e della sua tradizione in Israele vuole mettere alla prova Gesù, vuole verificare la sua conoscenze scritturistica e la sua fedeltà o meno alla tradizione.
Gli pone quindi una domanda classica, tipica di ogni persona e di ogni tempo: “Che fare?”; domanda che nello spazio religioso dell’ebraismo risuona con un’aggiunta: “Che fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli risponde con una contro-domanda: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”, cercando in questo modo di portarlo a esprimersi in prima persona.
L’esperto cita allora il grande comandamento attestato nel Deuteronomio, che ogni ebreo conosce a memoria e ripete tre volte al giorno, lo Shema‘ Jisra’el: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi, con intelligenza spirituale, aggiunge il comandamento dell’amore del prossimo, estraendolo dal libro del Levitico (Lv 19,18).
…  Gesù non può fare altro che approvare una tale interpretazione, che raggiunge il suo insegnamento sull’amore esteso addirittura ai nemici, ai persecutori (cf. Lc 6,27-35), e di conseguenza invita quest’uomo a realizzare, a mettere in pratica quotidianamente quanto ha saputo affermare.
Ma quell’esperto che aveva voluto mettere alla prova Gesù, volendo giustificare la sua domanda iniziale, lo interroga di nuovo: “E chi è il mio prossimo?”.
Ancora una volta Gesù non risponde direttamente perché, se acconsentisse alla domanda del suo interlocutore, dovrebbe dare una definizione del prossimo e così situarsi all’interno della casistica degli scribi e dei farisei, ai quali il dottore della Legge appartiene.
No, il prossimo non può essere rinchiuso in una definizione, perché in verità è colui che ognuno di noi decide di rendere prossimo avvicinandosi a lui.  ( E .Bianchi )
Il prossimo non esiste già. Prossimo si diventa. Prossimo non è colui che ha già con me dei rapporti di sangue, di razza, di affari, di affinità psicologica. Prossimo divento io stesso nell’atto in cui, davanti a un uomo, anche davanti al forestiero e al nemico, decido di fare un passo che mi avvicina, mi approssima. ( C.M. Martini )
Ecco perché racconta Gesù una parabola, aggiungendovi alla fine un’altra contro-domanda.
Un uomo anonimo, del quale Gesù non precisa nulla – né nazionalità, né condizione sociale, né appartenenza religiosa –, mentre percorre la strada che da Gerusalemme scende a Gerico viene assalito da banditi che lo depredano, lo picchiano e lo lasciano mezzo morto sul ciglio della strada. Nulla di straordinario, ma un fatto che è quotidiano nelle nostre città, soprattutto dove i banditi borseggiano, strattonano, malmenano e finiscono per lasciare le persone aggredite a terra sulla strada…
Su questa strada – dice Gesù – passano due persone segnate dalla loro funzione religiosa: un sacerdote e un levita, uomini ai quali è affidata la cura del tempio di Dio a Gerusalemme e che in Israele si vogliono esemplari per gli altri. Ebbene, questi due uomini religiosi, conoscitori della Legge, tesi a onorare la dimora di Dio, passando su quella strada vedono quell’uomo a terra, ferito e bisognoso, ma passano oltre, dall’altra parte. Stanno lontani e proseguono il loro cammino. Perché? Sono forse insensibili, malvagi? No. E allora perché? Perché sono abitati innanzitutto dal dovere di restare lontano da un possibile cadavere, per timore di diventare impuri (cf. Nm 19,11-16).
O forse perché vedono ma non guardano veramente, non sono abituati a vedere discernendo (“Beato chi discerne il povero e il misero” [Sal 41 (40),2 LXX]).
 Non fanno alcun male, ma certo omettono di fare qualcosa. E così anche per noi: la maggior parte dei nostri peccati, delle nostre contraddizioni all’amore fraterno, non è originata da odio o cattiveria, ma si tratta di azioni mancate per indifferenza. Esattamente come ci ricorderà il Signore nel giorno del giudizio: “Via, lontano da me, maledetti, perché non avete fatto questo e quello” (cf. Mt 25,41-45)…  ( E Bianchi )
La loro durezza è l’immagine della nostra. I bisogni dei fratelli ci mettono in difficoltà. Rimaniamo chiusi in noi stessi e scarichiamo sugli altri le responsabilità. I rapporti sociali che ci legano ai nostri simili, senza la scintilla della carità, restano inerti. Dobbiamo esaminare umilmente le difficoltà che le nostre comunità incontrano nell’esercizio della carità. ( C. M. Martini )
Ciò che sorprende nel prosieguo della parabola è che al sacerdote e al levita, i tipici religiosi, Gesù oppone un samaritano, l’antitipo, cioè il perfetto contrario dei due osservanti e puri giudei.
I samaritani, infatti, erano considerati gente impura, scismatica ed eretica, detestata dai giudei e sempre in lotta contro di loro. Insomma, un samaritano era certamente la persona più disprezzata dai giudei… ma proprio lui Gesù pone come esemplare…. Anche il samaritano, passando su quella strada, vede, e per vedere bene si avvicina, si fa prossimo all’uomo ferito: allora, volto contro volto, il samaritano è commosso nelle viscere, sente salire dalle sue profondità un sentimento di compassione, di sdegno, di pietà. La misericordia è questo sentimento viscerale, materno, che in realtà raduna tanti sentimenti e come una pulsione sale dalle nostre viscere, facendosi sentire come sofferenza, con-sofferenza con chi è nel bisogno. Dal sentimento nasce l’azione: il samaritano versa olio e vino sulle ferite, le fascia, poi carica quell’uomo sul suo giumento e lo conduce in una locanda, affidandolo al locandiere per le cure e la convalescenza. Questo samaritano si prende cura dell’uomo ferito dai banditi fino al possibile esito positivo: fa tutto quello che può.
Ecco allora emergere la verità: ci sono persone ritenute impure, non ortodosse nella fede, disprezzate, che sanno “fare misericordia”, sanno praticare un amore intelligente verso il prossimo. Non si devono appellare né alla Legge di Dio, né alla loro fede, né alla loro tradizione, ma semplicemente, in quanto “umani”, sanno vedere e riconoscere l’altro nel bisogno e dunque mettersi al servizio del suo bene, prendersi cura di lui, fargli il bene necessario.
Questo è fare misericordia!
Al contrario, ci sono uomini e donne credenti e religiosi, i quali conoscono bene la Legge e sono zelanti nell’osservarla minuziosamente, che proprio perché guardano più allo “sta scritto”, a ciò che è tramandato, che non al vissuto, a quanto avviene loro nella vita e a chi hanno davanti, non riescono a osservare l’intenzione di Dio nel donare la Legge: e quest’unica intenzione, al servizio della quale la Legge si pone, è la carità verso gli altri! Com’è possibile che proprio le persone religiose, che frequentano quotidianamente la chiesa, pregano e leggono la Bibbia, non solo omettano di fare il bene, ma addirittura non salutino i con-fratelli e le con-sorelle, cose che fanno i pagani? È il mistero di iniquità operante anche nella comunità cristiana! Non ci si deve stupire, ma solo interrogare se stessi, chiedendosi se a volte non si sta più dalla parte del comportamento omissivo proprio di questi giusti incalliti, di questi legalisti e devoti che non vedono il prossimo ma credono di vedere Dio, non amano il fratello che vedono ma sono certi di amare il Dio che non vedono (cf. 1Gv 4,20); di questi zelanti militanti per i quali l’appartenenza alla comunità o alla chiesa è fonte di garanzia, che li rende bendati, ciechi, incapaci di vedere l’altro bisognoso.
Allora Gesù alla fine della parabola chiede all’esperto della Legge: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei banditi?”. L’altro risponde: “Colui che ha fatto misericordia” (Vulgata: “Qui fecit misericordiam”). E Gesù dunque conclude: “Va’ e anche tu fa’ così”, cioè fa’ misericordia, ovvero guarda bene, con discernimento, avvicinati, fatti prossimo, senti una compassione viscerale e fa’ misericordia nel prenderti cura del bisognoso. Non esiste il prossimo: il prossimo è colui che io decido di rendere vicino. (Enzo Bianchi )
Nella società attuale, amare con paziente concretezza il fratello povero, bisognoso, oppresso significa non limitarsi a fare qualche intervento personale, ma anche cercare e risanare le condizioni economiche, sociali, politiche della povertà e dell’ingiustizia. In altre parole, per essere buoni samaritani nella società attuale, occorre fare qualcosa di più di quello che ha fatto, secondo la parabola evangelica, il buon samaritano nella società di allora, meno complessa e stratificata. ( C. M. Martini )
 

XIV Domenica del T.O. – Divenire operai della sua messe è un invito rivolto a tutti

discepoli evangelizzatoriAnche in questa domenica, le letture della liturgia ci aiutano a comprendere la vera identità del discepolo di Gesù. Al centro del Vangelo odierno la chiamata e la missione da parte del Signore di settantadue nuovi discepoli. Si tratta di un numero simbolico, che richiama l’insieme di coloro che sono destinati a rendere testimonianza al Signore su tutta la terra. ( N. Galantino )
Le parole di Gesù sono un invito a prendere coscienza che c’è bisogno della collaborazione di tutti. Purtroppo nella tradizione religiosa queste parole sono state limitate, riservate, quindi facendo loro perdere tutta la sostanza, alle vocazioni religiose.
Come se Gesù avesse pensato a chiedere di inviare preti, frati e suore. Nulla di tutto questo. Divenire operai della sua messe è un invito rivolto a tutti. Tutti devono collaborare all’annunzio della buona notizia di Gesù. Non ci sono categorie speciali, non ci sono categorie riservate ( A Maggi )
«Mancano operai del bello, mietitori di speranza, contadini che sappiano far crescere germogli di un mondo più giusto, di un’umanità più positiva, più umana» (E. Ronchi).
Gesù manda i discepoli a due a due, perché vivano innanzitutto in comunione e siano l’uno sostegno per l’altro, l’uno regola all’altro nelle tentazioni; due a due affinché la missione non sia un’azione di uomini singolari e individualisti. Li invia come pecore tra i lupi, cioè inermi, deboli, fragili, consapevoli di stare in mezzo a coloro che si oppongono al Vangelo di Gesù Cristo; pecore tra i lupi anche per testimoniare che così gli inviati preparano quel giorno escatologico in cui “il lupo dimorerà insieme con l’agnello” (Is 11,6).   
Gesù si ferma a spiegare in modo particolare lo stile del discepolo inviato da lui, il Signore, e da lui totalmente dipendente. Non sarà come alcuni missionari farisei, né come i filosofi itineranti, né come i rabbini visitatori. Sarà piuttosto come il levita del salmo 16, che nella sua povertà proclama: “Il Signore è mia porzione e mio calice” (v. 5), perché confiderà solo nel Signore. Sarà povero, non misero, ma senza denaro con sé, senza assicurazioni per il viaggio, e attuerà innanzitutto un contatto cellulare, entrando nelle case, incontrando sulle strade quelli che cercano la vita piena. A costoro, “figli della pace”, della vita in pienezza, gli inviati augureranno lo shalom, la pace….. ( E Bianchi  )
In qualunque casa entriate non domandate di che idea sono, se credono in Dio o non ci credono, se sono del vostro partito, ma dite «Pace a questa casa».  Se c’è un figlio della pace rimanete, altrimenti la pace ritornerà a voi.
Vorrei dire: la condanna c’è ma non è una condanna estrinseca, è già nell’ essere senza pace.
 Questo modo pacifico di vivere il messaggio del Vangelo non ha confini, non ha discriminazioni perché ovunque c’è un figlio della pace.   ….  I figli della pace sono dovunque. ( Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – Vol. 3 )
…   Ciò che stupisce in questo invio dei discepoli è che Gesù non chiede di compiere grandi cose, portenti,  … ma  di vivere come Lui che, “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9); come Gesù che, da santo che era, è andato ad alloggiare presso i peccatori (cf. Lc 19,7); come Gesù, che annunciò lo shalom quale buona notizia (cf. At 10,36).
…  Questa pagina evangelica può sembrarci radicale, severa nelle richieste relative allo stile missionario, ma in verità per ogni inviato si tratta di essere figlio nel Figlio, vivendo la missione che il Figlio stesso ha ricevuto dal Padre quando è stato da lui inviato nel mondo. Basta riferirsi alla missione di Gesù e non inventarci noi delle missioni, soprattutto in un clima come quello attuale: si è così tesi all’evangelizzazione degli altri che non si guarda più se l’inviato è evangelizzato o no, se assomiglia al suo Signore o se invece è preoccupato del numero degli ascoltatori e del risultato della sua propaganda del prodotto…  (Enzo Bianchi )
 
 
 
 
 
 
 

XIII Domenica del T.O. – Diventare discepoli significa accettare la povertà, l’insicurezza, il fardello del fratello o della sorella da portare, la sottomissione reciproca, l’insicurezza e poi anche il fallimento..

Pro XIII rLe letture di oggi, a partire dalla vocazione di Eliseo (prima lettura), contribuiscono a definire l’identikit del discepolo di Gesù, esposto a tanti pericoli e tentato da atteggiamenti sbagliati. Gli stessi con cui ovane Eliseo ha una sua vita, le sue proprietà, anche noi, spesso, dobbiamo fare i conti. Il gii suoi progetti. Attraverso il profeta Elia il Signore irrompe e sconvolge tutti i suoi piani. Quando il Signore entra nella vita di una persona, cambia il suo orizzonte, invitandola ad uscire dal perimetro dei propri “terreni” (idee, progetti, aspettative) e proiettandola verso orizzonti nuovi. E spesso lo fa attraverso circostanze, persone, storie che bisogna imparare a intercettare e accogliere nella propria vita, con grande libertà interiore. Quella stessa libertà alla quale – ci ricorda Paolo (seconda lettura) – noi tutti «siamo stati chiamati». Anche il Vangelo richiama le esigenze che comporta il vivere la sequela di Gesù. Continua a leggere

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

Incontri sulla Dei Verbum
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