Vangelo Domeniche e Festività
XII Domenica del T. O. – …Anche se magari crediamo di avere una fede matura, di essere cristiani adulti, nella prova interroghiamo Dio sulla sua presenza, arriviamo anche a contestarlo e talvolta a dubitare della sua capacità di essere un Salvatore.
Non finiremo mai di domandarci (e tutte le risposte saranno amare!) perché proprio i credenti, in tutta la storia, si siano distinti per la paura.
È davvero un segno del mistero del male!
La nostra vita di credenti organizzati è stata sempre contrassegnata da ricerche di garanzie diverse dall’unica garanzia che è la potenza messianica del Cristo. Continua a leggere
XI Domenica del T.O. – …Il cristianesimo fino alla fine dei tempi non sarà che un granello, non sarà che una manciata di lievito e forse niente altro.
Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui.
Nel vangelo più antico Gesù pronuncia un discorso in parabole come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34) .
Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso éso, “dentro” (cf. Mc 3,31-32; 4,11). Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare. ( E. Bianchi )
…Ritorniamo allora con più umiltà a queste parabole del regno perché esse offrono una sapienza che non è riservata soltanto ai credenti, dato che trattano delle sorti del mondo, è riservata a tutti. Ed infatti quanti che non erano nel gruppo dei discepoli, l’hanno capita.
Gesù parlava di queste cose ma fra i suoi discepoli c’era chi aveva la spada nel fodero. Non tutti quelli che ascoltarono capirono e molti di quelli che non erano del gruppo hanno capito.
Forse in un consuntivo che nel futuro dovrà essere fatto – adesso è perfino difficile immaginarlo – si potrà anche dire che il Vangelo ha prosperato là dove non è stato predicato, e si è corrotto là dove è stato predicato.
Forse il Vangelo della non-violenza aveva le sue sedi predisposte in un mondo lontano da quello dall’impero romano che stritolò i cristiani e poi apparentemente ne fu sconfitto.
In realtà fu lui a sconfiggerli in quanto li fece uguali a sé e portò i cristiani ad accettare la guerra come mezzo efficace per il fine.
Questo è il dramma della storia che si apre dinanzi a noi, appena lo guardiamo.
Allora mi viene a mente, e credo non in un taglio consolatorio, questa semplice parola di Gesù: ” Non tutti possono capire” e non perché ci sia una discriminazione da parte di Dio, ma perché chi ha reso il suo spirito omogeneo a questo mondo non può capire. Coloro che per professione sono quelli che capiscono non possono capire; i piccoli e i semplici che non sono del tutto integrati nella robusta sapienza istituzionale possono capire. Così fu e così è sempre.
Che il regno di Dio debba insediarsi in questo mondo come un grande impero lo pensarono i cristiani corrotti dalla volontà di potenza, ma forse il cristianesimo fino alla fine dei tempi non sarà che un granello, non sarà che una manciata di lievito e forse niente altro.
Non si obiettiverà mai in istituzioni date, perché una istituzione che nasce ha come sua prima preoccupazione quella di salvare se stessa e così si mette fuori del regno di Dio dove è legge morire.
Il seme che non muore non dà frutto, ma le istituzioni, anche quelle ecclesiastiche, non vogliono morire e perciò non danno frutto.
Ecco forse qual è il mistero che sfioriamo quando tocchiamo queste parole del Signore apparentemente antiche, lontane e innocenti.
Sono esse invece che ci assediano, entrano in noi come una spada a doppio taglio e ci fanno capire che o scegliamo i mezzi omogenei al fine oppure saremo stritolati.
Il regno di Dio è anche il regno del giudizio di Dio e questo giudizio di Dio ha per noi forme ben chiare, prospettive spaventose e scientificamente descrivibili.
Ci siamo! Ecco perché io penso che questa sapienza evangelica non è affatto decaduta. Apparentemente è alle nostre spalle, lontana, ma, guarda caso, appartiene all’oggi; apriamo gli occhi e vediamo che è come una gemma che sboccia oggi perché oggi più che ieri noi ci dobbiamo domandare con quali mezzi potremmo realizzare il regno della pace.
Gesù ce lo ha detto.
Non ci affidiamo ai potenti, non ci esaltiamo degli alberi verdi perché domattina saranno secchi, non ci sconsoliamo degli alberi secchi perché forse domattina verdeggeranno. Teniamoci l’animo disposto a questo e scegliamo personalmente la forza che non stritola nessuno ma che vuole essere soltanto una potenza suscitatrice di coscienze.
L’unica via per cui si trasmettono ideali senza umiliare e annientare nessuno è quella con cui una fiamma accende una fiamma, con cui il polline feconda i fiori: con la mitezza, la spontaneità dell’amore, la forza dell’evidenza e con questa grande fede.
Certo ci vuole fede.
Credere vuol dire esser certi che si avvererà quello che secondo la logica costituita non potrà mai avverarsi.
Noi dobbiamo vivere, con questa fede nel futuro dell’uomo e nel futuro di Dio, la tribolazione del conflitto fra i mezzi e il fine che vi ho descritto agli inizi. (Ernesto Balducci- dalle Omelie Inedite)
SS. Corpo e Sangue di Cristo – Il Cristo presente in mezzo a noi, nel segno del pane e del vino, esige che la forza dell’amore superi ogni lacerazione, e al tempo stesso che diventi comunione anche con il più povero, sostegno per il debole, attenzione fraterna a quanti fanno fatica a sostenere il peso della vita quotidiana, e sono in pericolo di perdere la fede.
Abbiamo ascoltato: nella [Ultima] Cena Gesù dona il suo Corpo e il suo Sangue mediante il pane e il vino, per lasciarci il memoriale del suo sacrificio di amore infinito.
E con questo “viatico” ricolmo di grazia, i discepoli hanno tutto il necessario per il loro cammino lungo la storia, per estendere a tutti il regno di Dio.
Luce e forza sarà per loro il dono che Gesù ha fatto di sé, immolandosi volontariamente sulla croce. E questo Pane di vita è giunto fino a noi!
Non finisce mai lo stupore della Chiesa davanti a questa realtà. Uno stupore che alimenta sempre la contemplazione, l’adorazione e la memoria. Ce lo dimostra un testo molto bello della Liturgia di oggi, il Responsorio della seconda lettura dell’Ufficio delle Letture, che dice così: «Riconoscete in questo pane, colui che fu crocifisso; nel calice, il sangue sgorgato dal suo fianco. Prendete e mangiate il corpo di Cristo, bevete il suo sangue: poiché ora siete membra di Cristo. Per non disgregarvi, mangiate questo vincolo di comunione; per non svilirvi, bevete il prezzo del vostro riscatto».
C’è un pericolo, c’è una minaccia: disgregarci, svilirci.
Cosa significa, oggi, questo “disgregarci” e “svilirci”?
Noi ci disgreghiamo quando non siamo docili alla Parola del Signore, quando non viviamo la fraternità tra di noi, quando gareggiamo per occupare i primi posti – gli arrampicatori -, quando non troviamo il coraggio di testimoniare la carità, quando non siamo capaci di offrire speranza. Così ci disgreghiamo.
L’Eucaristia ci permette di non disgregarci, perché è vincolo di comunione, è compimento dell’Alleanza, segno vivente dell’amore di Cristo che si è umiliato e annientato perché noi rimanessimo uniti.
Partecipando all’Eucaristia e nutrendoci di essa, noi siamo inseriti in un cammino che non ammette divisioni.
Il Cristo presente in mezzo a noi, nel segno del pane e del vino, esige che la forza dell’amore superi ogni lacerazione, e al tempo stesso che diventi comunione anche con il più povero, sostegno per il debole, attenzione fraterna a quanti fanno fatica a sostenere il peso della vita quotidiana, e sono in pericolo di perdere la fede.
E poi, l’altra parola: che cosa significa oggi per noi “svilirci”, ossia annacquare la nostra dignità cristiana? Significa lasciarci intaccare dalle idolatrie del nostro tempo: l’apparire, il consumare, l’io al centro di tutto; ma anche l’essere competitivi, l’arroganza come atteggiamento vincente, il non dover mai ammettere di avere sbagliato o di avere bisogno. Tutto questo ci svilisce, ci rende cristiani mediocri, tiepidi, insipidi, pagani.
Gesù ha versato il suo Sangue come prezzo e come lavacro, perché fossimo purificati da tutti i peccati: per non svilirci, guardiamo a Lui, abbeveriamoci alla sua fonte, per essere preservati dal rischio della corruzione.
E allora sperimenteremo la grazia di una trasformazione: noi rimarremo sempre poveri peccatori, ma il Sangue di Cristo ci libererà dai nostri peccati e ci restituirà la nostra dignità.
Ci libererà dalla corruzione.
Senza nostro merito, con sincera umiltà, potremo portare ai fratelli l’amore del nostro Signore e Salvatore. Saremo i suoi occhi che vanno in cerca di Zaccheo e della Maddalena; saremo la sua mano che soccorre i malati nel corpo e nello spirito; saremo il suo cuore che ama i bisognosi di riconciliazione, di misericordia e di comprensione.
Così l’Eucaristia attualizza l’Alleanza che ci santifica, ci purifica e ci unisce in comunione mirabile con Dio. Così impariamo che l’Eucaristia non è un premio per i buoni, ma è la forza per i deboli, per i peccatori. E’ il perdono, è il viatico che ci aiuta ad andare, a camminare.
Oggi, festa del Corpus Domini, abbiamo la gioia non solo di celebrare questo mistero, ma anche di lodarlo e cantarlo per le strade della nostra città.
La processione che faremo al termine della Messa, possa esprimere la nostra riconoscenza per tutto il cammino che Dio ci ha fatto percorrere attraverso il deserto delle nostre povertà, per farci uscire dalla condizione servile, nutrendoci del suo Amore mediante il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.
Tra poco, mentre cammineremo lungo la strada, sentiamoci in comunione con tanti nostri fratelli e sorelle che non hanno la libertà di esprimere la loro fede nel Signore Gesù. Sentiamoci uniti a loro: cantiamo con loro, lodiamo con loro, adoriamo con loro. E veneriamo nel nostro cuore quei fratelli e sorelle ai quali è stato chiesto il sacrificio della vita per fedeltà a Cristo: il loro sangue, unito a quello del Signore, sia pegno di pace e di riconciliazione per il mondo intero.
E non dimentichiamo: «Per non disgregarvi, mangiate questo vincolo di comunione; per non svilirvi, bevete il prezzo del vostro riscatto». ( Papa Francesco )
SS. TRINITÀ – Dio è comunità, vita condivisa, dedizione e donazione reciproca, comunione gioiosa di vita. Dio è insieme colui che ama, l’amato e l’amore.
La festa della Ss. Trinità è la festa di un Dio che non ha smesso di amare ognuno di noi e che chiede di allargare gli spazi in cui lui possa amare. Ed è proprio questo il compito della comunità, oggi: dire al mondo che c’è un Dio che ama e portare a Dio un mondo bisognoso di amore. La Ss. Trinità è un Dio Amore, il cui annuncio passa anche dalla testimonianza della nostra vita. (Monsignor Nunzio Galantino)
Il “mistero della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo” sembra all’uomo occidentale una sorta di algebra divina: come l’uno può essere tre e il tre uno? ( D. Giuseppe Dossetti )
Il Vescovo Tonino Bello (grande pastore di Molfetta, e uomo di profondissima spiritualità evangelica, morto nel 1993) racconta di come lui un giorno cercò di preparare una omelia sulla Trinità e di come un prete lo aiutò a trovare la soluzione più vera, e che era la più semplice.
“Carissimi fratelli, l’espressione me l’ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt’altro che banale. Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti. Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto… Colsi l’occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: “Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra.” (da un omelia del 12 aprile 1987)
Quando noi cristiani confessiamo la Trinità di Dio, vogliamo affermare che Dio non è un solitario, chiuso in se stesso, ma un essere solidale.
Dio è comunità, vita condivisa, dedizione e donazione reciproca, comunione gioiosa di vita. Dio è insieme colui che ama, l’amato e l’amore.
Confessare la Trinità non vuol dire soltanto riconoscerla come principio, ma anche accettarla come modello ultimo della nostra vita.
Quando affermiamo e rispettiamo le diversità e il pluralismo tra gli esseri umani, in pratica confessiamo la distinzione trinitaria di persone.
Quando eliminiamo le distanze e lavoriamo per realizzare l’uguaglianza effettiva tra uomo e donna, tra i fortunati e gli sventurati, tra i vicini e i lontani, affermiamo nella pratica l’uguaglianza delle persone della Trinità.
Quando ci sforziamo di avere «un cuor solo e un’anima sola» e di imparare a mettere tutto in comune, perché nessuno abbia a patire l’indigenza, stiamo confessando l’unico Dio e accogliamo in noi la sua vita trinitaria. (Vescovi di Navarra e del paese Basco, Creer hoy en el Dios de Jesucristo, pasqua 1986)
Cerchiamo di ascoltare il brano evangelico previsto dalla liturgia, la conclusione del vangelo secondo Matteo.
“In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.”
Questa espressione con l’articolo determinativo, “il monte”, è apparsa al capitolo 5, quando Gesù proclama le beatitudini su “il monte”.
Allora l’evangelista vuol dire che situarsi in Galilea su il monte significa situarsi nel cuore del messaggio di Gesù, le beatitudini.
Le beatitudini invitano l’uomo a orientare la propria esistenza al bene dell’altro.
“Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.“
Ma di che cosa dubitano?
Non che sia risuscitato, lo vedono!
Non che in Gesù ci sia la condizione divina, si prostrano!
Di che cosa dubitano?
L’unica volta che c’è il verbo “dubitare” in questo Vangelo è al capitolo 14, quando Pietro pretese di camminare sulle acque – e questo significava avere la condizione divina – ma incominciò ad affogare. E Gesù lo rimproverò: “uomo di poca fede, perché dubitasti? (Mt 14,32).
Allora in questo brano questa espressione “dubitare” dei discepoli si riferisce a che cosa? Anche loro pensano di avere la condizione divina, di arrivare alla condizione divina come Gesù, ma capiscono attraverso cosa è passato Gesù: l’ignominia della croce.
Allora dubitano di se stessi, non sanno se saranno anch’essi capaci di affrontare la persecuzione, la sofferenza e il martirio per arrivare alla condizione divina.
Gesù, nonostante questa loro esitazione, li manda.
Dice: “ Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.”
Il verbo battezzare significa “immergere, inzuppare, impregnare. … È compito della comunità dei credenti di andare verso gli esclusi, verso gli emarginati, verso i rifiutati dalla religione e proprio a loro far fare una esperienza – di questo si tratta – della pienezza dell’amore del Padre, colui che da la vita, del Figlio, colui nel quale questa vita si è pienamente realizzata, e dello Spirito, questa energia vitale.
“Insegnando”.
E’ la prima volta nel Vangelo di Matteo che Gesù autorizza i discepoli ad insegnare. Non li autorizza ad insegnare una dottrina, ma una pratica: infatti “a praticare e a osservare tutto ciò che io vi ho comandato”.
… Non una dottrina da proclamare, ma una pratica da insegnare, “insegnate a praticare le beatitudini”, ““insegnate a praticare la condivisione per amore, il servizio reso per amore”.
Se c’è questo – ecco la garanzia – “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
…. Non si tratta di una scadenza, ma di una qualità di presenza; non c’è nessuna fine del mondo, Gesù non mette paura, Gesù assicura che se ci sono queste condizioni di andare comunicando amore, lui è sempre presente nella sua comunità e questo “per sempre” quindi non è una scadenza, ma una qualità della sua presenza. (A. Maggi )