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Leggiamo, una pagina al giorno, il libro “ PREGARE LA PAROLA” di Enzo Bianchi. Per accedervi click sulla voce del menu “ PREGARE LA PAROLA” o sull’icona che scorre di seguito .

Vangelo Domeniche e Festività

II Domenica di Avvento – La vita cristiana va di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno fine.

Giov Bapts….  Nella storia di salvezza, la storia come Dio la legge, c’è un inizio, un ricominciare: quando Dio crea il cielo e la terra; quando la Parola di Dio inizia il suo percorso di incarnazione; quando inizia la vicenda di Gesù sulla terra; quando verrà il Signore Gesù nella gloria per darci cieli nuovi e terra nuova (cf. 2Pt 3,13; Ap 21,1)…
Leggendo questa dinamica, Gregorio di Nissa afferma che anche la vita cristiana “va di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno fine”.
Io amo ripetere che il cristianesimo, il Vangelo vissuto nella carne di uomini e donne, ricomincia sempre:
ancora oggi, come ieri e come domani, sempre si constaterà un rinascere, un ricominciare del Vangelo, che appare qua e là nella vita di alcuni che vogliono, tentano con tutte le loro forze di essere alla sequela di Gesù, sulle sue tracce (cf. 1Pt 2,21).
È il miracolo dei miracoli questo ricominciare del Vangelo vissuto, oserei dire della chiesa più vera, del fuoco del Vangelo che, conservato sotto la brace, ricomincia a divampare, a essere fuoco.
Ecco dunque “l’inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”, cioè della notizia bella e buona che è portata e rappresentata da Gesù di Nazaret, il Messia venuto da Dio e da lui inviato nel mondo, la sua Parola eterna fatta carne fragile e mortale (cf. Gv 1,14), il suo Figlio venuto tra gli uomini.
Il termine Vangelo (euanghélion) è attestato nella versione greca del profeta Isaia, nel passo che in questa domenica viene letto come prima lettura:

Consolate, consolate il mio popolo
dice il vostro Dio
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua schiavitù è finita,
che il suo peccato è stato perdonato …
Sali su un alto monte,
tu che annunci la buona notizia (verbo euanghelízo) a Sion.
Alza la tua voce con forza,
tu che annunci la buona notizia (verbo euanghelízo) a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere;
annuncia alle città della Giudea: “Ecco il vostro Dio!” (Is 40,1-2.9).
Ecco il Vangelo, la bella e buona notizia: Dio viene! Nel vangelo secondo Marco questa buona notizia è che Dio viene in Gesù suo Figlio. Tutto avviene come sta scritto nello stesso brano del profeta Isaia:
Ecco – dice il Signore –, io invio il mio messaggero davanti a te,
egli preparerà la tua strada.
Voce di uno che grida nel deserto:
“Preparate la strada del Signore,raddrizzate i suoi sentieri” (Is 40,3; cf. Es 23,20; Ml 3,1).  ( E. Bianchi )

 
Nel rileggere queste pagine della Scrittura, su cui ogni anno ci avviene di meditare, sono rimasto particolarmente colpito dalla presenza, in ognuna di esse, di immagini contraddittorie tra di loro.
Nella prima lettura Isaia ci parla del Signore Dio che viene con potenza.
Egli detiene il dominio, i suoi trofei lo precedono.   È un Dio potente, un Dio di guerra con i suoi trofei.
Subito dopo come un pastore Egli fa pascolare il gregge, porta gli agnellini sul petto.
Ecco una immagine di un Dio amoroso, tenero, senza segni di potenza.
 Questa immagine contraddittoria, come abbiamo tante volte detto, appartiene alla nostra maniera di rappresentarci Dio: ora onnipotente e irremovibile, con un inferno accanto a sé per tutti i cattivi, ora tenero, pronto a perdonare tutti come il padre col figliol prodigo.
Così Pietro nella sua profezia ci parla, secondo un linguaggio apocalittico, di una terra che dovrà essere distrutta: «La terra con quanto c’è in essa sarà distrutta».
Ma subito dopo ci dice che noi aspettiamo «cieli e terra nuova» dove dimora la giustizia.
 Questa contraddizione trova una sua rappresentazione umana nel brano con cui ha inizio il Vangelo di Marco nel quale campeggia Giovanni Battista vestito di peli di cammello con una cintura di pelle attorno ai fianchi.
 Un asceta che si ciba soltanto di locuste e di miele selvatico.
Ma egli diceva che «sta per venire uno che non battezzerà in acqua ma in Spirito Santo» e del quale egli non è degno di sciogliere i calzari.
Colui che sta per venire, il Messia non rassomiglia al Dio onnipotente, con il braccio segno di potenza e con i trofei dinanzi a sé, è un re che entrerà nella città cavalcando un asinello, con mitezza e respingerà ogni ricorso alla forza.
È proprio la manifestazione di quel volto nascosto di Dio che ogni tanto ci avviene di scoprire con commozione interna: il Dio che è solo amore e non conosce la vittoria attraverso il potere..
Questo regno che nasce è un regno in cui davvero la giustizia e la pace si baciano.
In questo regno si entra per battesimo di Spirito Santo.
Ho voluto ricostruire schematicamente queste contraddizioni perché esse gettano una luce in una nostra esperienza umana dalla quale non possiamo uscire ed è una esperienza di una dura contraddizione: la contraddizione, per usare una formula classica, tra la pace e la giustizia che per realizzarsi ha bisogno della forza.
L’amore per la giustizia arma la mano, costruisce i carceri per i criminali.
Quella della giustizia è una passione terribile e necessaria, però è funesta perché sparge sangue.
Per aver la giustizia non si può accettare la pace e se poi vogliamo la pace dobbiamo disarmare le mani, tollerare l’ingiustizia.
Per amore della pace si fanno tante cose, si sopportano le ingiustizie.
Questi due frammenti della verità totale – la giustizia e la pace – non stanno mai insieme. Anche nelle provocazioni morali che riceviamo dalla nostra responsabilità pubblica siamo sempre di fronte a questo conflitto.(…)
 Ho tracciato queste contraddizioni senza nessuna presunzione di dire qual è la via giusta, anzi per ribadire il concetto che non c’è una via giusta se non ci adattiamo a collocare queste due mezze verità – le chiamerò così – non in un rapporto di statica contraddizione ma in un rapporto di successione.
Dobbiamo muoverci verso una terra nuova ed un nuovo cielo e muoverci vuol dire mettere in atto tutte le possibilità per far partorire la terra: la verità nascerà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo.
 Dobbiamo sentirci coinvolti in un processo genetico in cui la verità ci attrae – quella del Dio tenero come un pastore con gli agnelli, quello di Gesù che perdona il peccatore, che mangia insieme ai peccatori che non affida mai la redenzione dell’uomo alla durezza – sia una prospettiva verso cui siamo incamminati.
È una tribolazione quella di dover accettare la durezza per salvare la pace, di essere non pacifici per amore della pace.
 È una contraddizione che dobbiamo soffrire, sia nell’ambito di una famiglia, in cui la pace esige spesso durezza, e poi nell’ordine internazionale.
E una dura scelta e tuttavia dobbiamo sentire che questa scelta se ha senso lo ha perché deve sbocciare, finalmente, nel trionfo della pace, in questa conciliazione fra giustizia e pace che è l’orizzonte che dà dignità ai nostri sforzi e perfino ai nostri contrasti fra di noi Queste scelte, infatti, sicuramente ci dividono e non dobbiamo demonizzare l’altra parte, chiamare quelli che vogliono la pace a tutti i costi come degli irresponsabili o dall’altra parte chiamare quelli che vogliono la fermezza come dei guerrafondai.
 Dobbiamo sentire la contraddizione dentro il cuore, dentro di noi.  (Ernesto Balducci – “dalle omelie inedite”.)
 
Gesù non è qualcuno che arriva per caso, ma giunge secondo la promessa fatta dai profeti, ed è colui che è atteso da quanti hanno ascoltato i profeti stessi. Gesù viene dunque preceduto da un messaggero, Giovanni il Battista, che gli prepara una strada e chiede di ritornare a Dio mutando il comportamento, cambiando la propria vita nel pensare e nell’agire. Ecco la metánoia, la conversione che esige di non fare più ciò che si faceva, di tralasciare di fare il male, di fare il bene secondo la volontà di Dio (cf. Is 1,16-17). Occorre cambiare, avere questo coraggio e questa forza per collocarsi in una novità di vita, in modo da poter incontrare colui che viene, il Signore veniente, colui che Dio ha inviato nel mondo, in mezzo all’umanità.
Per dire che erano convinti e che iniziavano questo nuovo cammino di accoglienza della buona notizia, molti andavano da Giovanni nel deserto e sigillavano questo nuovo inizio facendosi da lui immergere nelle acque del Giordano. In tal modo essi dicevano visibilmente che accettavano di seppellire il loro vivere mondano, ed erano tirati fuori dalle acque quali creature nuove, impegnati in una vita nuova, riconciliati con Dio che rimetteva, perdonava i loro peccati. Giovanni è il messaggero inviato da Dio davanti a Gesù, è l’uomo del deserto, dove si fa raggiungere dai credenti, perché nel deserto, luogo di solitudine e di spogliazione, potessero ascoltare la voce di Dio e discernere il Veniente (ho erchómenos), che è ormai vicino, imminente, tanto da poter essere annunciato dal precursore. Giovanni non ne dice il nome, ma lo indica come “il più forte che viene dietro di me”, che presto sarà rivelato, farà la sua comparsa. Per ora sta umilmente, come discepolo, dietro a Giovanni, il maestro, colui che immerge nell’acqua per sigillare la conversione e il perdono dei peccati da parte di Dio. Ma ecco, sta per venire, e il Battista quale messaggero e precursore deve annunciarlo e deve confessare di non essere degno neppure di slegargli i sandali: è il Veniente, mandato da Dio, munito della forza dello Spirito santo!
La chiamata di Giovanni ieri era rivolta ai giudei, annuncio di una buona notizia riguardante Gesù, il Veniente, il Messia, il Figlio di Dio. Ma questa chiamata riguarda ancora noi, oggi: vogliamo ascoltare la bella e buona notizia? Vogliamo convertirci e cambiare vita? Vogliamo andare incontro al Veniente, Gesù Cristo, nella forza dello Spirito santo? Vogliamo, in altre parole, ricominciare il cammino di conversione a Dio, fidandoci di Gesù, della sua buona notizia, fidandoci della forza dello Spirito santo che può trascinarci in questo cammino di ritorno a Dio e di comunione con lui? La buona e bella notizia, il Vangelo di Gesù Cristo, riesce a farci ricominciare la sequela sulle sue tracce?
Sì, il Vangelo vissuto non fa che chiamarci a ricominciare sempre, proprio come annuncia il vangelo secondo Marco con una significativa inclusione. All’inizio del vangelo, in Galilea, Gesù chiama degli uomini, dei pescatori (cf. Mc 1,16-20); alla fine il Risorto li chiama di nuovo, dopo le loro contraddizioni alla sequela e i loro misconoscimenti della sua buona e bella notizia: “Vadano in Galilea. Là mi vedranno” (cf. Mc 16,7). Dove li ha chiamati a cominciare, li richiamerà a ricominciare: è l’avventura cristiana, che sempre ricomincia! È Avvento, fratelli e sorelle, è ora di ricominciare!   ( E.Bianchi )

I Domenica di Avvento – Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante.

vegliate mQuesta domenica ha il profumo delle cose nuove: è ancora tempo di cominciamenti, che affascinano e sollecitano risposte di vita.
Sì, l’Avvento giunge come grazia inaspettata, che ci sorprende là dove siamo.
Lo stupore è allora maggiore perché forse la nostra situazione per molti versi è analoga a quella del popolo d’Israele; forse anche noi stiamo attraversando un momento difficile e buio, se non addirittura disperato, da cui non riusciamo a uscire con le sole risorse della nostra buona volontà.
Per questo, forse, non è lontana nemmeno dalle labbra del nostro cuore l’invocazione che attraversa la prima lettura: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi(Is 63,17).
Quel grido in qualcuno può perfino essere divenuto rassegnazione al silenzio di Dio, al suo cielo chiuso, fino a far sospettare che sia inutile sperare e attendere aiuto; fino a concludere che sia vano continuare a implorare: «Vieni; Signore Gesù».
Da questo torpore la liturgia ci scuote, ricordandoci la nostra responsabilità: come ai servi di cui parla il Vangelo, il Signore ha affidato alla nostra libertà la sua casa e i suoi beni.
Di qui i due verbi che scandiscono l’Avvento; due verbi che, per il cristiano, costituiscono un vero e proprio programma di vita: «Fate attenzione» e «vegliate» (Mc 13,33).  (Monsignor Nunzio Galantino)
 
Ma cosa significa vegliare?
Vuol dire “stare svegli”, stare con gli occhi aperti, “fare attenzione”, come traduce la versione italiana.
È la postura della sentinella che veglia, lottando contro il sonno e soprattutto contro l’intontimento spirituale; che tiene gli occhi ben aperti e scruta l’orizzonte per cogliere chi e che cosa sta per giungere.
Vegliare è un esercizio faticoso, perché in esso occorre impegnare la mente e il corpo, ma è un esercizio generato e sostenuto da una speranza salda: c’è qualcuno che giunge, qualcuno che è alla porta; qualcuno che, amato, invocato, ardentemente desiderato, sta per venire. Non è un caso che sanno vegliare soprattutto le sentinelle e gli amanti…(E. Bianchi)
Nel Vangelo di oggi il padrone se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito (Marco 13,34).
   …. Gesù racconta il volto di un Dio che mette il mondo nelle nostre mani, che affida le sue creature all’intelligenza fedele e alla tenerezza combattiva dell’uomo.
Ma un doppio rischio preme su di noi.
Il primo, dice Isaia, è quello del cuore duro: perché lasci indurire il nostro cuore lontano da te? (Is 63,17).
La durezza del cuore è la malattia che Gesù teme di più….
 Il secondo rischio è vivere una vita addormentata: che non giunga l’atteso all’improvviso trovandovi addormentati (Marco 13,36).
Il Vangelo ci consegna una vocazione al risveglio, perché «senza risveglio, non si può sognare»
 Rischio quotidiano è una vita dormiente, incapace di cogliere arrivi ed inizi, albe e sorgenti; di vedere l’esistenza come una madre in attesa, gravida di luce; una vita distratta e senza attenzione.
Vivere attenti. …. Attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute, ad ogni offerta di tenerezza, alla bellezza del loro essere vite incinte di Dio.
Attenti al mondo, nostro pianeta barbaro e magnifico, alle sue creature più piccole e indispensabili: l’acqua, l’aria, le piante. Attenti a ciò che accade nel cuore e nel piccolo spazio di realtà in cui mi muovo. …… (Ermes Ronchi)
 
Gesù dice “Vigilate dunque: voi non sapete quando il signore della casa…” questo signore della casa è contrapposto al signore della vigna di cui Gesù aveva parlato, dove la vigna era l’immagine di Israele.
 Ebbene ora non c’è più la vigna, immagine di Israele, ma c’è la casa, immagine di familiarità, di umanità, perché il messaggio di Gesù non è più limitato a un popolo, a una nazione, a una religione, ma è un messaggio universale, e la casa è un’immagine che tutta l’umanità può comprendere.
Poi  Gesù divide la notte in quattro parti (la sera, mezzanotte, il canto del gallo e il mattino), secondo l’uso romano e non tre secondo l’uso ebraico, per far comprendere che questo messaggio non è più limitato a questa nazione, ma si estende in tutta l’umanità.
E’ un messaggio valido per gli uomini di ogni condizione e di ogni latitudine.
E di nuovo l’avviso di Gesù: “Fate in modo che, giungendo all’improvviso… ” – all’improvviso significa un’irruzione che non lascia tempo di cambiare atteggiamento – “.. non vi trovi addormentati” ….   ( A. Maggi )
 
Noi non sappiamo né il giorno né l’ora in cui si compirà questa parola del Signore, parola definitiva su tutta la creazione; non sappiamo quando Gesù Cristo, risorto e vivente in Dio quale Signore, verrà: e questa attesa che dura ormai da quasi duemila anni è faticosa.
Nella fede, però, sappiamo che “il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa(2Pt 3,9) e che ai suoi occhi “un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno(2Pt 3,8);  nella fede siamo certi che la sua parola non può mentire e non può non realizzarsi.
Ecco perché lo attendiamo, perseveranti nella preghiera che grida: “Maràna tha! Vieni, Signore” (1Cor 16,22; Ap 22,20).
Questa attesa è dipinta da Gesù nella parabola in cui il Figlio dell’uomo è assente, come un uomo partito per un viaggio.
……   Chissà quando il Signore verrà… Potrebbe venire nella sera quando uno dei Dodici, Giuda, lo consegna (cf. Mc 14,17.43) e Pietro, Giacomo e Giovanni dormono, invece di vegliare con lui (cf. Mc 14,32-42); o forse a mezzanotte, quando regna l’oscurità e dominano le tenebre; o forse al canto del gallo, quando il portinaio, Pietro, lo rinnega (cf. Mc 14,72); o forse al mattino, quando ormai la notte è diventata lunga, insopportabile.
In ogni caso, arriverà certamente all’improvviso, per questo occorre non essere addormentati ma restare vigilanti, memori del semplice ma decisivo monito di un padre del deserto, abba Poemen: “Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante”. ( E. Bianchi )
 
 
 
 
 

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A): Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo. – La sua regalità consiste nel compiere quel giudizio che è una misura di giustizia verso tutti coloro che sulla terra sono stati vittime ….

Giudizio-mr[Nell’ultima domenica dell’anno liturgico ] il brano del vangelo ci dice che cosa il regno di Gesù chiede a noi: ci ricorda che la vicinanza e la tenerezza sono la regola di vita anche per noi, e su questo saremo giudicati.
È la grande parabola del giudizio finale di Matteo 25. ( Papa Francesco)
 È un brano straordinario, che sintetizza in modo semplice la singolarità cristiana, ponendo con chiarezza ogni discepolo di Cristo di fronte alla propria concreta responsabilità verso i fratelli, in particolare verso gli ultimi.
……La sua regalità consiste nel compiere quel giudizio che è una misura di giustizia verso tutti coloro che sulla terra sono stati vittime, privati della possibilità di una vita degna di questo nome; in questo modo Gesù porterà a compimento ciò che ha iniziato durante il suo passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38). ( E. Bianchi )
Gesù non è un re alla maniera di questo mondo: per Lui regnare non è comandare, ma obbedire al Padre, consegnarsi a Lui, perché si compia il suo disegno d’amore e di salvezza. ( Papa Francesco )
Il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e tutte le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità davanti al Dio che “ama giustizia e diritto” (Sal 33,5). ( E. Bianchi )
 Come giustamente dicono le note delle nostre bibbie, questa non è una parabola, ma è piuttosto la descrizione profetica della fine del mondo e del giudizio finale. ….Con questa Parola il Vangelo esce dall’ambito proprio della comunità cristiana e avvolge tutta l’umanità. …     Gesù si pone in mezzo all’umanità come “il Povero”.
La forza delle sue parole sta quindi nel radicale coinvolgimento della sua Persona divina nella vicenda dell’umanità.
E’ un giudizio “dal di dentro” del dramma della storia. Ed è un chiaro e indubitabile atto di “presa di posizione”: Dio è “nei poveri”!
Senza questo primato del volto della sua presenza nella storia, ogni sapienza fa naufragio e ogni teologia è deviata.  ( G. Nicolini )
… Per noi cristiani i poveri sono anche “sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli)  , dell’ingiustizia che regna sulla terra, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra capacità di vivere nel mondo quale corpo di Cristo.
Quando infatti vediamo una persona oppressa dalla povertà, dovremmo saper interpretare questa situazione come il frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili in prima persona.
Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farci prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se forse lo scopriremo solo alla fine dei tempi… ( E. Bianchi )
 Il povero è come Dio! Carne di Dio sono i poveri, i loro occhi sono gli occhi di Dio, la loro fame è la fame di Dio. Se un uomo sta male anche Lui sta male.
Noi abbiamo ridotto i poveri ad una categoria sociale, all’anonimato. Invece per il Vangelo il povero non è l’anonimo, ha il nome di Dio. Un Dio che ha legato la salvezza non ad azioni eccezionali, ma ad opere quotidiane, semplici, possibili a tutti. Non ad opere di culto verso di lui, ma al culto degli ultimi della fila. Un Dio che dimentica i suoi diritti, preferendo i diritti dei suoi amati. ( Ermes Ronchi )
  Io se vedo un marocchino o un poveraccio, o un disgraziato, o un ubriaco…. vedo un uomo che ha bisogno. Tu lo aiuti, se sei credente poi sai che quel volto lì è la trasparenza del volto di Dio… tu lo sai… Ma se non lo avverti perchè non sei credente, aiutalo lo stesso… poi un giorno (questo sta nel vangelo)… ricordate il capitolo 25 del Vangelo di Matteo?
Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere….Quelli diranno:Signore ,chi t’ ha mai visto? Quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, ti abbiamo visto assestato e ti abbiamo dato da bere…non t’ho mai visto…
Questo vuol dire che in mezzo a quel numero lì ci sono anche dei non credenti…
Quando mai ti abbiamo visto? E Gesù dirà : ” Ogni volta che avete fatto qualcosa del genere ad uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me”.
Non t’ho visto mai, non ti conosco… L’avete fatto a me…  
Tribuna numerata, numero 2 e 3 nello stadio del cielo… e il vescovo invece, che vi predica queste cose, arriverò io… va bè dai in curva, ed entrerò di straforo…e chissà a quanti di voi farò segno, voi che starete in tribuna coperta, vi farò segno… e voi forse però, anche se io rimarrò in tribuna, probabilmente voi mi ringrazierete… me… o dico gli altri vostri educatori, perchè se siete andati a finire in tribuna un pò di colpa ce l’abbiamo noi… allora saremo felici lo stesso. ( Don Tonino Bello )
[ Nella prina lettura] Il Brano di Ezechiele  è intessuto di verbi che indicano la premura e l’amore del pastore verso il suo gregge: cercare, passare in rassegna, radunare dalla dispersione, condurre al pascolo, far riposare, cercare la pecora perduta, ricondurre quella smarrita, fasciare la ferita, curare la malata, avere cura, pascere. Tutti questi atteggiamenti sono diventati realtà in Gesù Cristo.
Quanti nella Chiesa siamo chiamati ad essere pastori   non possiamo discostarci da questo modello, se non vogliamo diventare dei mercenari. A questo riguardo, il popolo di Dio possiede un fiuto infallibile nel riconoscere i buoni pastori e distinguerli dai mercenari. ( Papa Francesco )
  …Mi sorprende, m’incanta sempre un’immagine: gli archivi di Dio non sono pieni dei nostri peccati, raccolti e messi da parte per essere tirati fuori contro di noi, nell’ultimo giorno.
Gli archivi dell’eternità sono pieni sì, ma non di peccati, bensì di gesti di bontà, di bicchieri d’acqua fresca donati, di lacrime accolte e asciugate.
Una volta perdonati, i peccati sono annullati, azzerati, non esistono più, in nessun luogo, tanto meno in Dio.
E allora argomento del giudizio non sarà il male, ma il bene; non l’elenco delle nostre debolezze, ma la parte migliore di noi; non guarderà la zizzania ma il buon grano del campo.
Perché verità dell’uomo, della storia, di Dio è il bene. Grandezza della nostra fede.
Poi però ci sono quelli condannati: via da me… perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare.
Quale è la loro colpa?
Non è detto che abbiano fatto del male ai poveri, non li hanno aggrediti, umiliati, cacciati, semplicemente non hanno fatto nulla per loro.
Sono quelli che dicono: non tocca a me, non mi riguarda.
Gli uomini dell’indifferenza.
Quelli che non sanno che cosa rispondere alla grave domanda di Dio a Caino: che cosa hai fatto di tuo fratello?
Il giudizio di Dio non farà che ratificare la nostra scelta di vita: via, lontano da me, perché avete scelto voi di stare lontano da me che sono nei poveri.
Allora capisco che il cristianesimo non si riduce semplicemente a fare del bene, è accogliere Dio nella mia vita, entrare io nella vita di Dio : l’avete fatto a me!  ( Ermes Ronchi )
Nell’ultimo giorno tutti, cristiani e non cristiani, saremo giudicati sull’amore, e non ci sarà chiesto se non di rendere conto del servizio amoroso che avremo praticato quotidianamente verso i fratelli e le sorelle, soprattutto verso i più bisognosi. E così il giudizio svelerà la verità profonda della nostra vita quotidiana, il nostro vivere o meno l’amore qui e ora: “impariamo dunque a meditare su un mistero tanto grande e a servire Cristo come egli vuole essere servito” (Giovanni Crisostomo). (E.Bianchi)

XXXIII Domenica del T.O. "I talenti della parabola sono la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore."

Talenti ParQuella dei talenti potremmo considerarla una parabola che apparentemente ben si adatta al sistema capitalistico – e quindi bene accetta agli uomini del nostro tempo – la cui logica conosciamo tutti: bisogna darsi da fare, il capitale va raddoppiato, se non lo raddoppi sei mandato all’inferno.
Bisogna davvero impegnarsi nella vita, le doti che hai devono fruttare e più hai più devi rendere, devi raddoppiare ciò che hai. Ma così non è.
Questa è l’interpretazione usuale, che afferma esattamente il contrario di quel che dice il testo.
 Per comprendere davvero un brano del Vangelo è, infatti, necessario leggerlo tenendo conto del contesto.
Prima della parabola dei talenti l’evangelista Matteo ricorda la parabola delle dieci vergini e subito dopo troviamo il racconto del giudizio finale: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…».
Nel capitolo 25, dunque, Matteo prima indica, nella parabola delle dieci vergini, la necessità di procurarsi l’olio in questa vita; poi, nel nostro testo, spiega “come” procurarselo: trafficando i talenti. Ed infine, nel brano successivo, ci dice come trafficarli: dandoli ai poveri.
Non è, dunque, ciò che abbiamo quel che conta, ma ciò che diamo. Esattamente il contrario della logica del capitalismo.
Uno sguardo diretto alle cose, l’esigenza di azioni concrete. A questo ci richiama la parabola dei talenti se la leggiamo alla luce dell’intero capitolo 25 di Matteo. Un capitolo nel quale Gesù racconta il nostro ultimo incontro con Dio, nel giorno del giudizio finale, quando saremo divisi da una parte o dall’altra secondo un criterio che il Signore offre con grande chiarezza:«Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 44).
Il capitolo si chiude dunque con un’indicazione precisa, che richiama alla capacità critica di servire, ponendosi, in maniera umile e concreta, al servizio di chi è affamato, assetato, senza lavoro senza denaro, senza ospitalità, infermo.
Ed è alla luce di questa stessa concretezza che possiamo leggere, sempre nel capitolo 25, il bellissimo gesto di quel gruppo di ragazze che aspetta lo sposo con una riserva d’olio.
….Tutte le vergini si svegliano, si preparano ad accendere le lampade ma solo chi ha progettato, chi ha guardato lontano, chi ha sperato, chi ha investito, chi ha avuto coraggio di andare oltre il consueto e il doveroso ottiene ora il dono grande di entrare con lo sposo nella stanza delle nozze.
La parabola dei talenti si innesta dunque in questo contesto, proprio tra il racconto delle vergini in attesa e il racconto del giudizio finale.
Una parabola, quella dei talenti, che ci offre la ricchezza di un triplice sguardo.
Innanzitutto ci pone davanti alla diversità dei doni, che non sono dati secondo logiche meritocratiche, ma secondo le necessità di ciascuno.
Un servo riceve cinque talenti, un servo ne riceve due, il terzo uno soltanto, ma il merito non c’entra. I talenti sono un dono del Signore.
Il secondo aspetto, sul quale è importante soffermarsi, è, infatti, proprio la diversità con cui sono accolti i doni ricevuti. E questa diversità è segnata dal diverso coraggio con cui i tre servi agiscono.
I primi due, pur avendo avuto doni differenti, hanno il medesimo cuore: esprimono la gratitudine, l’impegno, lo zelo, il servizio, l’imprenditorialità, la capacità di darsi con fiducia alla vita e consegnarsi con speranza agli impegni quotidiani….I due servi, quindi, rispondono con lo stesso cuore a doni differenti.
E questo ci indica una verità semplice: non è la quantità che determina la qualità, ma è la qualità che fa la quantità.
…. Terzo aspetto di questa parabola: l’atteggiamento tremendo del terzo servo che ha dentro di sé un sentimento paralizzante, che emerge con grande chiarezza più avanti nel racconto quando confessa al signore «…per paura mi allontanai e nascosi il talento sotto terra».
Ecco, la “paura” è la parola, il sentimento centrale di questa parabola dei talenti.
La paura determina uno stile fallimentare – ieri, oggi e in ogni tempo – davanti ai doni di Dio.
…… La paura ha paralizzato il terzo servo, che ha voluto salvare il salvabile, accontentandosi del minimo, di una lampada senza riserva.
Il racconto delle vergini savie, la parabola dei talenti, la narrazione del giudizio finale contengono il medesimo messaggio: non basta non fare il male, non basta accontentarsi del poco che si fa, potendo fare di più.
Non basta  vivere dello scontato, del doveroso, delle cose fatte per necessità. Occorre un’esperienza di grande dedizione, occorre lo slancio dentro, occorre la capacità di sconfiggere la paura.
 ……Cosa dobbiamo fare per ritrovare lo slancio di un amore sempre più grande?
Dove trovare la forza di lottare contro la paura che ci spinge a sotterrare i nostri talenti?
Prima di tutto dobbiamo dare forza alla nostra fede.
È la fede che permette al nostro cuore di guardare oltre l’ostacolo.
La fede genera la speranza e la speranza produce la carità. Quindi tutto nasce da qui.
La paura è inversamente proporzionale alla fede. Più cresce la paura, meno c’è fede. Più cresce la fede, meno paura c’è.
I talenti della parabola sono, allora, la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore. Mettono in luce la nostra capacità di dire: «Riconosco, Dio, quanto mi hai dato, riconosco le mie forze, investo i tuoi doni, investo i talenti perché voglio farli fruttare».
Questo passaggio, questo atto di riconoscimento, è la risposta di chi crede nella vita, di chi ha fede. Anche davanti al poco la nostra fede deve essere grande. Anche chi ha un solo talento può, se crede, farlo fruttare.
Nel Dio che ce l’ha donato possiamo trovare la forza di farlo fruttare, di condividerlo, di metterlo in comune.
È in Lui che possiamo trovare il coraggio per andare oltre la nostra paura, oltre le nostre paure, che si evidenziano ancora di più oggi nell’attuale fase che stiamo vivendo oggi, in questa difficile congiuntura storica, sociale ed economica.
La paura sta segnando profondamente, oggi, la nostra vita. Anche la vita della nostra Chiesa.
E in queste condizioni si finisce per non avere più fiducia nel futuro. Per questo è ancora più importante, oggi, l’innesto possibile della presenza e del ministero dei laici all’interno dell’azione pastorale.
Là dove ci sono situazioni di fatica e di difficoltà questo innesto è provvidenziale e fecondo.
Il secondo strumento per vincere la paura è quello di lasciarsi avvolgere dalla spinta positiva che tanta gente ha oggi intorno a noi. Si tratta di tornare a quello che dicevano i Santi: «allearsi tra i buoni».
Non basta essere buoni, bisogna creare una catena tra i buoni, bisogna creare un circolo, una rete.
Bisogna lavorare insieme, bisogna far sì che il mio talento si innesti con il tuo e il tuo con il mio: cinque talenti, più due talenti, più un talento.
L’ultimo servo della parabola non ha innestato il suo talento. Non si è collegato con gli altri due, ha lavorato da solo, si è isolato.
Il testo lo dice con chiarezza: «Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, allontanatosi scavò una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo signore».
Nel raccontare l’azione del primo servo e, per similitudine di comportamento, del secondo, Matteo scrive che “andò subito” a impiegare i suoi cinque talenti. Il terzo servo, invece, si “allontana”, si tira fuori dal gruppo.
Ecco, questo è il punto: l’isolamento accresce la paura. La relazione fa diminuire la paura, aiuta tutti noi a rischiare.
Se il terzo servo avesse mantenuto un legame con gli altri due, probabilmente avrebbe avuto il coraggio di non fare quello che ha fatto.
Il terzo elemento che aiuta a vincere la paura è: cinque talenti, più due talenti, più un talento.
È sommando i nostri doni, le nostre potenzialità che possiamo vincere la paura, liberare il nostro amore, costruire segni vivi di speranza.
Ed è a questa capacità di andare oltre le nostre forze che rimanda anche la parte conclusiva della parabola dei talenti.  
Perché il signore dà il talento tolto al terzo servo a chi ne ha già dieci?
È una domanda che mi sono fatto spesso.
Credo ci sia qui il riconoscimento di una dimensione qualitativa che aiuta ad andare oltre anche nelle relazioni sociali: chi ha dentro un cuore grande è chiamato a portare il peso anche di chi non riesce a portare in fondo il suo compito.
Ecco, allora, che chi ha dieci talenti prende anche il peso dell’unico talento rimasto sterile.
Chi se la cava nella vita grazie ai doni grandi ricevuti dal Signore deve essere pronto a farsi carico anche delle fatiche degli altri. Il talento rimasto aggrava la responsabilità di chi ne ha già tanta.
Ma è una fatica che può essere assunta in pienezza, con il sostegno della fiducia di Dio che sa che chi ha dato tanto può dare ancora di più. Perché il cuore più generoso non ha limiti, il cuore che sa amare non ha confini.  (Mons. Giancarlo Maria Bregantini)

 ***

  È possibile specificare che cosa sono i talenti?
Prima di rispondere mi soffermo su altre parole: dynamis, la traduzione capacità è un po’ equivoca: oggi si intende una capacità nel trafficare, fare ecc – dynamis è la misura stessa precostituita da Dio. Lc. 24,49; At. 1,5.8; 6,8: è la misura stessa dello Spirito che Dio assegna. 1Cor. 1,18-24:
La dynamis è la prevenzione divina attraverso il dono dello Spirito.
Allora i talenti?
Rm 12,3-6; 1Cor. 10,13: mi sono fissato su questo: il talento nel suo bene ultimo è il Figlio suo comunicato nella misura di fede che ci è data di Lui.
Gv. 6,26-28: questa è l’opera credere in colui che egli ha mandato.
Che cos’è questa opera Dio e il guadagno?
Fil. 3,6sg: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
Questo mi sembra il testo definitivo: il talento che Dio consegna è la misura di fede che è nel suo nucleo il Cristo. Quindi bisogna trafficare questa fede.
È la confessione del Cristo che genera la fede; è la fede che guadagna la fede.
Un contenuto di questa parabola, dato il posto in cui si situa, è fare crescere in noi la fede generando atti di fede e più specificatamente nella sua punta, la fede nel ritorno di Cristo. Questa interpretazione mi sembra sia una specificazione più legittima delle forme generiche usate da voi.
La dynamis è opera di Dio; il contenuto è la fede stessa come cognizione di Cristo che è data da Dio; il frutto è amore (cf. Gal. 5,6).
La fede è il termine, è l’attesa del suo ritorno (cfr. Rm. 1,17 da fede a fede).
Mi sono preoccupato di approfondire questo per sottolineare come l’operare – oggi considerato come espressione delle attitudini umane – sia in realtà l’operare nella fede.
Restano parecchi punti interrogativi soprattutto su ciò che non ho esaminato. Però questa interpretazione mi pare legittima: il Cristo ci è dato secondo la cognizione che abbiamo di Lui. … ( D. Giuseppe Dossetti  – Appunti di omelia – Gerico, 19. 11. 1975 )

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