Vangelo Domeniche e Festività
Domenica 09 Novembre 2014 – Dedicazione della Basilica Lateranense – "Il corpo del Cristo è il nuovo Tempio."
( Celebriamo questa domenica la dedicazione della Basilica Lateranense )
Nata come festa della Chiesa che è in Roma, fu in seguito “estesa a tutte le chiese di rito romano per onorare la basilica chiamata chiesa-madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe, e come segno di amore e di unione verso la cattedra di Pietro”.
La chiesa cattedrale è madre non solo perché è il luogo da dove è partita l’evangelizzazione della regione, dando alla luce altre chiese, ma innanzitutto perché ci ha dato la vita mediante il battesimo, ci ha resi figli di Dio riversando sopra di noi il dono dello Spirito Santo. Ha fatto di noi il tempio di Dio. ( D. Ezechiele Pasotti )
…Per capire il ruolo del tempio nella tradizione di Israele occorre un attimo ricomprendere tutta l’antropologia e tutta la teologia di Israele, quindi ricondursi all’idea originaria. ….
L’uomo è stato creato come essere colloquiante con Dio, e il paradiso è il luogo di questo colloquio con Dio.
… La cacciata dal paradiso … è vista come la catastrofe in quanto allontanante dal luogo dell’incontro personale con Dio.
La restitutio quindi dell’uomo, la redenzione dell’uomo, dell’umanità, la storia della salvezza si disegna tutta come un ritorno al luogo della communio con Dio, della comunione edenica.
…. Ci sono dei testi numerosissimi, nei quali si parla delle diverse generazioni che succedono, la prima generazione quella di Adamo, come generazione nella quale la Shekinah si allontana di un gradino, poi di un altro, poi di un altro, poi di un altro, poi di un altro fino al punto supremo dell’allontanamento che è costituito dalla generazione della separazione, della dispersione, … la generazione della Torre di Babele, l’ultimo grado di separazione.
… Poi i riavvicinamenti progressivi che iniziano con la storia di Abramo.
La storia di Abramo è la storia del ritorno, dunque di questo riabbassarsi della Shekinah, della dimora della Gloria di Dio, al livello dell’uomo, in modo da riavvolgere l’uomo e ricomprenderlo nella communio….
Quindi col viaggio di Abramo verso la terra che Dio gli indicherà … inizia la ricondunzione dell’uomo alla communio con Dio. E’ per questo che, arrivato nella terra, – “questa è la terra” – comincia subito a costruire degli altari.
Non è soltanto una presa di possesso, ma è la qualifica della terra come il luogo nel quale si può ritrovare il colloquio con Dio, e dal quale è legittimo innalzare a Dio la supplica e nel quale è giustificato attendere da parte di Dio la benedizione.
La costruzione degli altari, della quale si parla al cap. 12 della Genesi, che è quello che racconta della vocazione di Abramo, è a questo riguardo estremamente significativa: è uno degli elementi capitali di tutta la storia della salvezza in realtà. ( U. Neri )
[ Gesù caccia i mercanti dal tempio ] ….Lo fa per dichiarare finita ormai la liturgia, con un gesto profetico, …La liturgia del Tempio è’ sostanzialmente conclusa.
Conclusa perché?
La giustificazione è data dopo. “Quale segno fai per scacciare questi venditori e per ripulire il Tempio in modo che non si possano fare più sacrifici, non ci sono più animali, venditori ecc. tutto questo ordine di celebrazioni non c’è più?”
La giustificazione: “Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro e uno nuovo e non manufatto”.
E i discepoli non capirono, ma capirono soltanto dopo che alludeva al Tempio del suo corpo.
Allora il nuovo Tempio!
Il Tempio non è distrutto, il Tempio è sostituito.
Nessuna delle realtà dell’Antico Testamento è distrutta, sono tutte sostituite.
… E il Tempio stesso è ripreso perché c’è un luogo solo donde salgono a Dio le preghiere gradite, l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’unico luogo sul quale è aperto il cielo, l’unico luogo sul quale si posa lo sguardo compiaciuto di Dio, il luogo anzi in cui dimora corporalmente la pienezza della divinità che è il corpo del Cristo.
Il corpo del Cristo è il nuovo Tempio.
…E questo nuovo Tempio è il Tempio messianico, è il corpo stesso glorificato del Cristo, verificato come Tempio nuovo anche da ciò che Giovanni per esempio fa osservare sull’acqua che scaturisce dal fianco trafitto del Cristo, che è l’acqua che sgorga dal lato destro del tempio di Ezechiele, il Tempio messianico, ed è l’acqua del sacrificio che sgorga continuamente dal Tempio, come già in Zaccaria 12 – mi pare.
Il Tempio messianico dunque è il corpo del Cristo dal quale soltanto salgono le preghiere e sul quale soltanto si posa il compiacimento di Dio.
Perché noi siamo amati in Cristo, esauditi in Cristo, incontriamo il Padre nel Cristo, preghiamo il Padre nel Cristo.
C’è ormai un unico sacrificio, un’unica preghiera, un unico sacerdote, un unico altare, un unico mediatore, …
… …Il corpo di Cristo è il Tempio nel quale l’umanità incontra Dio e accede a Dio, nel quale è riconciliata. … ( U. Neri )
( Il nuovo tempio ) non è un santuario costruito da mani di uomo, dove le persone devono andare portando le offerte, ma l’unico vero santuario sarà .. Gesù … che andrà incontro alle persone. Incontro agli esclusi dal tempio, agli emarginati dalla religione.
Questo nuovo santuario non chiederà offerte, ma sarà lui che offrirà il suo amore a tutti gli uomini. ( A. Maggi )
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I cambiavalute, installati nel tempio, rappresentano il sistema finanziario di quel tempo, e della nostra epoca. Il culto nel tempio garantiva ingenti ricchezze a quanti vivevano di esso direttamente o indirettamente, dalla casta sacerdotale fino ai semplici impiegati. Il gesto di Gesù tocca il punto nevralgico del tempio: il suo sistema economico-finanziario. Cacciando dal tempio gli animali che si utilizzavano per i sacrifici, dichiara inutili e nulli tali sacrifici, che costituivano la parte essenziale del culto. (Carlos Escudero Freire Córdoba)
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Con il suo gesto “profetico”, Gesù si inserisce nell’altro modo di intendere e vivere il Testamento; quello che attraversa tutta la storia del popolo d’Israele e trova una sua altissima espressione nel movimento profetico.
…I profeti rivelano Dio come estremamente vicino all’uomo, misericordioso, giusto giudice che privilegia le vittime, vittima egli stesso: un Dio…onnidebole. Paragonato ad un padre e ad una madre. Schierato apertamente in favore dell’orfano e della vedova, figure dei precari di ogni tempo.
Quello annunciato dai profeti è un Dio che invita a farsi carico dei problemi dei poveri e ad ospitare il forestiero, anzi si identifica egli stesso nel povero e nel forestiero:…. Un Dio pacifico e compagno di strada, che predilige il piccolo, il debole, il calpestato, l’escluso. ……
Gesù si inserisce in questo filone profetico, anzi, è Lui che annuncia la notizia delle notizie: non solo Dio è con noi ma è diventato uno di noi, si è fatto uomo.
Gesù di Nazaret è il più grande paradosso di Dio: ci mette di fronte a Dio stesso, il Creatore, che si fa bambino, debole e, per giunta, povero.
Un Dio che ci “scandalizza” perché mentre noi ci ostiniamo a volerlo vedere e invocare come l’Onnipotente, lui ci disobbedisce,
- disobbedisce all’idea, tutta umana, di Dio: all’idea troppo fredda e razionale che i filosofi e anche tanti teologi si sono fatta di Lui;
- disobbedisce anche ad alcune pagine della Bibbia che lo descrivono come l’invincibile Dio della guerra e degli eserciti;
- disobbedisce, forse, anche a se stesso e si incarna nella storia reale, quotidiana e concreta, tra le pieghe e negli scarti della Storia, quella decisa dai potenti e dai violenti.
E allora, “la Pasqua dei Giudei” che si avvicinava, richiamata all’inizio del brano evangelico di oggi, in realtà si allontana sempre di più per lasciare il posto alla nuova Pasqua nella quale non ci sarà più bisogno del tempio di pietra, “distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”: il tempio sarà ben presto inutile, non si prenderà più contatto con Dio in un luogo chiuso, ma Gesù stesso sarà presenza di Dio per tutti. … ( Don Vitaliano Della Sala)
Commemorazione di tutti i fedeli defunti – "lo faccio nuove tutte le cose” e quindi faccio nuovo anche te.
Tra le Letture per la Commemorazione dei defunti – che ricorre questa domenica -, il Vangelo riporta la promessa di Gesù di farci risorgere dalla morte. È come un impegno che si è preso con noi: non ci resta che improntare la nostra attuale vita a questa prospettiva di pienezza umana, data dalla resurrezione, fidandoci di Lui….
Sarebbe Dio a fallire, se l’uomo non potesse giungere alla vita eterna. Invece è Dio che si “realizza”, se l’uomo si lascerà prendere dalla resurrezione che il Signore gli dona…. Prima di giungere alla morte, dobbiamo vivere da risorti, da appartenenti alla vita piena in Dio e con Dio. ( Alberto Vianello ).
La resurrezione è il trionfo di Dio in noi, la prova della sua potenza creatrice, la capacità di rinnovare tutte le cose. È straordinario!
Isaia l’aveva profetato: “Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuove terre. Non si ricorderà più il passato non verrà più in mente poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare” (Isaia 65, 17) e Giovanni visto coi suoi occhi incantati di amore “Io vidi la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo da Dio ed era bella come una sposa adorna per il suo sposo”
Non è difficile convincersi che la vera profezia del Cristo è la Resurrezione dai morti. Penso sia davvero il sunto del suo insegnamento, del suo annuncio reso autentico e terribilmente vero del fatto che fu Lui a risorgere per primo, aprendo una via definitiva attesa da secoli con lo spasimo di tutte le morti.
…. La creazione è stata molto paziente nel sopportare la morte per tante generazioni prima che venisse Lui a spiegare le cose.
Certamente era aiutata dallo Spirito che abitava in essa per avere la forza di attendere perché altrimenti non sarebbe stata capace.
La pazienza di morire fa onore ai fiori, agli uccelli, alle volpi, all’uomo.
Io mi commuovo sempre davanti ad una formica che resta immobile schiacciata dalla mia sbadataggine o davanti a un coniglio che mi guarda con gli occhi vuoti mentre io con un coltello gli ho aperto la gola per preparare il pranzo ai miei fratelli.
Guai se cerco di capire!
Meglio vivere tra le pagine di un libro di favole dove vita e morte si incontrano come cose naturali e senza farci paura.
Anche Giovanni non fa paura quando presenta la morte con l’immagine del chicco di grano che muore.
….. Il Vangelo ci sta preparando alla grande spiegazione del perché del dolore e della morte e ci rivela il mistero nascosto nei secoli, “la vita nasce dalla morte” .
Quando avremo visto spuntata tutta la vita dimenticheremo la paura provata sul cammino della morte.
…. La resurrezione non è la riesumazione di un cadavere. È altra cosa… state tranquilli.
Ve lo immaginate, ad esempio, il vostro corpo giunto, a forza di pillole, e di attenzioni, a 95 anni e che grida con la sua debolezza, la sua bruttezza di scomparire, vederselo ricomparire in piedi tale e quale dopo la resurrezione?
Che disastro!
Se la forza di Dio nella resurrezione fosse quella di riesumare un cadavere, gli direi umilmente ma sinceramente, a proposito del mio: “Signore, per favore, lasciami nella terra e che più nessuno veda la mia faccia”.
Semmai, se proprio vuoi servirti del letame del mio corpo, fagli spuntare sopra un fiore.
[La resurrezione ] …è il Dio della Vita che si avvicina alla nostra morte resa più morte dal tempo, dal peccato, dalle esperienze del dolore e alitando come la prima volta nella genesi dell’universo ci dirà:
“lo faccio nuove tutte le cose” e quindi faccio nuovo anche te!
Ti faccio come hai desiderato tu.
Tu desideravi amare e non ci riuscivi: ora ci riuscirai.
Tu volevi la castità e hai pianto sui tuoi fallimenti? Eccoti, ora, ti faccio casto.
Hai sognato di salvare tutti gli uomini e ti sei svegliato ogni giorno umiliato dal tuo egoismo e dalle tue paure: ecco ti faccio capace di comunicare con tutti i poveri dell’universo e di vivere finalmente il dono di te.
La resurrezione non è la riesumazione del mio cadavere. Quello non esiste più come il chicco di grano caduto nella terra.
Esso semmai è solo più il segno di un’altra cosa che sta spuntando: la memoria di una storia vera, la mia, una continuità nella quale il meglio di me, la coscienza, ha trovato il suo ambiente e ha sviluppato la sua divina realtà a figlio di Dio.
La resurrezione è il trionfo di Dio in noi, la prova della sua potenza creatrice, la capacità di rinnovare tutte le cose.
È straordinario! ( Carlo Carretto )
«In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo». (CV II)
Con queste parole gravi il Concilio Vaticano II descrive l’ansietà e la povertà dell’uomo di fronte al mistero della morte. E noi siamo chiamati ad avvicinarci a questo mistero, e ad avvicinarci ad esso non come ad una realtà astratta, ma come a qualcosa che ha creato strappi dolorosi nella nostra carne, nella vita di ciascuno di noi. Ricordiamo infatti i nostri defunti, i nostri cari che ci hanno lasciato. Per ciascuno di noi sono nomi, persone, volti, parole care che ritornano alla mente, che riempiono la memoria dei giorni passati insieme, dei luoghi animati da presenze care e amate.
Anche i grandi Santi hanno vissuto lo strazio di queste separazioni: S. Agostino ha descritto con parole ancora vive la sofferenza da lui provata alla morte della madre. Ci dice: «Mentre le chiudevo gli occhi, runa tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma cos’era dunque – si domanda – che mi doleva dentro gravemente se non la recente ferita derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?».
Se dunque per i Santi le separazioni dolorose possono essere così penetranti, tali da spezzare il cuore, che cosa non sarà per ciascuno di noi e come non provare pena nel rivivere questi momenti di dolore e di separazione?
Ma i grandi Santi ci mostrano anche la via aperta all’uomo nel mistero della morte. È la via della Pasqua di Cristo che con la sua morte ha distrutto la nostra morte, con la sua risurrezione ha fatto a noi dono della vita.
E noi ricordiamo i nostri defunti non soltanto nella mestizia della separazione, ma li ricordiamo rivivendo il passaggio di Cristo nella morte, e attraverso la morte, alla vita, perché in questo stesso Cristo i nostri defunti vivono e vivranno. I nostri morti sono con noi e vivono con noi e li possiamo sentire uniti alla nostra preghiera. Essi ci parlano nella parola di Gesù, essi sono presenti con noi nella consolazione che il Signore ci dà. (Cardinale Carlo Maria Martini)
Solennità di Tutti i Santi – Il santo è l'uomo o la donna delle beatitudini.
La parole “beati” costituisce un’antropologia, una descrizione di che cosa è davvero l’uomo felice, vero, autentico.
Le beatitudini sono la proclamazione del modo di essere uomini evangelici, discepoli autentici di Gesù, uomini e donne fortunati e felici.
Esse rivelano un misterioso capovolgimento antropologico che consiste nel passare dall’avere all’essere, dall’essere al dare, dall’avere per sé all’essere per gli altri.
Cogliendo la dinamica di questo guado, che è importantissimo per l’uomo, possiamo raggiungere il segreto di Dio, e insieme il vero segreto dell’uomo: donarsi. ( card. Martini )
In questi ultimi decenni sono stati proclamati tanti santi e beati: mai c’è stata nella chiesa una stagione così ricca di canonizzazioni, segno anche di un’estesa “cattolicità” raggiunta dalla testimonianza cristiana.
Eppure molti, all’interno e attorno alla chiesa, hanno la sensazione di non conoscere dei santi “vicini”, di non riuscire a discernere “l’amico di Dio” – questa la stupenda definizione patristica del santo – nella persona della porta accanto, nel cristiano quotidiano.
….. Ecco il forte richiamo che risuona per noi oggi: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. E’ questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza a sempre nuove idolatrie, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore, nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile.
Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la chiesa: “Noi non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni” (Eb 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio.
In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno.
E la loro vicinanza è davvero capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro, avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre” (Lc 22,42).
Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo anche i santi che ancora operano sulla terra perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). ( E. Bianchi )
Tutti siamo chiamati alla santità; … e il “ desiderio dell’altare” è – forse—solo una “umana esigenza” … perché l’aspirazione di chi è in cammino verso la santità è “ abitare nella comunione Trinitaria e contemplare il volto di Dio.. ( Tirisan)
Purtroppo oggi questa memoria dei santi, così come quella dei morti il giorno seguente, è svuotata dalla celebrazione, sempre più popolare, di Hallowen: un altro, triste segnale di come nella nostra società si scivoli con facilità e insensibilmente dal reale al virtuale. A un mondo invisibile, autentico e reale, il mondo della comunione dei santi, viene sostituito un mondo invisibile ma immaginario, una fiction fabbricata con le nostre mani per autoconsolazione. No, la comunione dei santi è sperimentabile, vivibile: noi non siamo soli qui sulla terra perché nel Cristo risorto siamo “communicantes in unum”! ( E.Bianchi )
… Il termine greco “makários” significa “benedetto, fortunato, felice”: esso esprime la condizione dell’uomo su cui si è posata la benevolenza divina e che ha così realizzato le aspirazioni più ambite. Proprio così questa creatura è felice, perché si sente amata da un amore fedele e percepisce che la dignità del suo essere è riconosciuta, valorizzata, esaltata.
È la meta cui aspira ogni essere umano: siamo fatti per la felicità, e quando essa manca ci sentiamo frustrati, incompiuti, irrealizzati, non amati, tristi della tristezza più grande, la tristezza di vivere.
Beato è invece chi percepisce di essere avvolto da un amore grande e profondo, rivolto al suo cuore in modo proprio e personale, un amore sicuro e affidabile, a cui potersi abbandonare senza paura e senza rimpianti, un amore che ti fa sentire utile e importante e ti fa apparire la vita bella e degna di essere vissuta.
Chi non vorrebbe incontrare un simile amore?
Chi non vorrebbe essere beato così?
Parlando di beatitudini Gesù parla a tutti i candidati alla felicità, a tutto l’uomo, in ogni uomo. Egli annuncia la meta bella e la via per arrivarci, la gioia e il cammino da percorrere per farne esperienza.
Proprio così quanto sta per dire ci interessa tutti da vicino: il Maestro parla a noi, al nostro cuore inquieto, alla nostra sete d’amore, al nostro bisogno incancellabile di felicità, alla necessità che è nel profondo di ognuno di noi di essere riconosciuti nella nostra identità più vera, amati con un affetto puro, totale, bello e che duri per sempre.
Proprio da qui parte la rivoluzione di Gesù: dicendo “beati” egli richiama il mondo delle nostre aspirazioni più grandi, mentre ciò che aggiunge di volta in volta ci sconcerta e ci interroga, perché sembra indicare proprio l’opposto di ciò che avremmo immediatamente voluto o cercato…
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Chi chiamerebbe beato un povero? La povertà non è amabile, appare anzi ripugnante: richiama bisogni insoddisfatti, emarginazione e rifiuto, solitudine e abbandono, e l’impossibilità di fare ciò che avresti desiderato o voluto.
La povertà non è bella, né attraente: e Gesù chiama “beati” i poveri!
È vero che il testo di Matteo aggiunge “in spirito”, precisazione che manca nel passo parallelo del Vangelo di Luca (6,20): ma questa aggiunta, che sottolinea la necessità di una povertà scelta e voluta dal di dentro di te stesso, sembra rendere ancora più grave e inaudita la parola di Gesù. È come se egli dicesse che non basta essere poveri per essere beati, ma occorre scegliere e amare questa povertà, occorre volerla, anche se con l’aiuto e la forza che solo lo Spirito di Dio può darci. Insomma, Gesù ci mette in crisi su tutti i fronti: la via della gioia che ci indica è opposta a quella del successo in questo mondo, del denaro, del piacere, del potere ambiti come beni preziosi. Quello che il Maestro vuole dirci è che nulla di penultimo può riempire la sete infinita d’amore che ci portiamo dentro, e che solo se diventiamo vuoti di tutto possiamo lasciarci riempire da Dio, dalla Sua signoria, che illumina, trasforma e riscalda di vero amore tutto ciò che raggiunge.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
….. Il dolore è l’esperienza che unisce tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro: parlando di “quelli che sono nel pianto” il Maestro non sembra riferirsi a sofferenze fugaci, ad attimi passeggeri di dolore o di tristezza, ma a quella condizione prolungata, sorda, costante, che a volte sembra soffocare l’anima.
Il paradosso che Gesù annuncia si comprende proprio a partire da qui: nell’abisso del tuo dolore puoi essere beato, se riconosci accanto a Te la compagnia del dolore divino, dell’amore di Dio per il mondo come ci è stato rivelato nel Figlio.
Quando sei “nel pianto” non sei solo: Lui è con te. ….
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
… Mite è chi crede nell’efficacia della non-violenza ed è pronto a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggia, a far del bene a quanti gli fanno del male, anche contro ogni calcolo e misura di successo.
Mite è chi è pronto a chiedere e dare il perdono, perché è convinto che le ragioni del cuore che crede e che ama sono più durature ed efficaci di quelle della forza.
Mite è chi preferisce sempre l’ascolto, il dialogo, l’accoglienza e la riconciliazione alla chiusura, al rifiuto, al desiderio di rivalsa e alla vendetta.
La soluzione dei conflitti non si otterrà col ricorso alle armi: il mite non crede nella guerra e non riconosce alcuna guerra giusta, tale cioè che le distruzioni operate e le vite umane sacrificate possano essere proporzionate allo scopo da conseguire.
La “non violenza” è l’espressione coraggiosa ed esemplare di questa mitezza, che sulla bocca di Gesù attinge alla profondissima fonte del rapporto vitale della persona che la pratica con Lui, il mite e umile di cuore. …
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
La giustizia è il dare a ciascuno il suo, a Dio come a ognuno dei nostri fratelli in umanità. È giusto chi ama il Signore con tutto il cuore e a Lui solo vuole piacere e dare gloria. Chi agisce così, rispetterà ogni essere umano, riconoscendo nel volto d’altri, di ogni altro, un’esigenza infinita d’amore, il diritto inalienabile di ciascuno ad essere riconosciuto nella propria dignità di figlio di Dio, fatto a immagine del Creatore e Signore del cielo e della terra, un fratello per cui Cristo è morto.
Impegnarsi per la giustizia, averne fame e sete, vuol dire tendere in ogni scelta e comportamento alla piena realizzazione di ogni essere umano secondo il disegno di Dio e quindi al bene maggiore possibile per ognuna delle Sue creature. Chi agisce con giustizia e per la giustizia riconosce nell’altro non un avversario o un pericolo, ma un appello e un dono, specialmente se non può darti nulla in cambio. Ha fame di giustizia chi ama il povero, chi vede nel volto del misero il volto di Gesù ed è pronto a pagare di persona perché il diritto dell’umile non sia calpestato e la sua dignità sia sempre rispettata e promossa. Se veramente chi ha fame e sete di giustizia sarà saziato, come assicura il Maestro, possiamo essere certi che il Dio del Vangelo è un Dio “di parte”, vindice dei poveri e degli oppressi, dalla parte dei deboli e dei senza speranza. L’umile non sarà dimenticato dal Padre che è nei cieli, e chi si impegna per garantirne il diritto conoscerà la beatitudine anche nell’apparente sconfitta, in ogni prova e fatica, al di là di ogni calcolo o evidenza umana. Pagare il prezzo dell’amore per la giustizia è già essere partecipi della vittoria di Dio, difensore dei poveri e dei deboli.
Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia.
Misericordioso è chi ha un cuore compassionevole, che ama non a motivo dei meriti dell’altro, ma per il solo fatto che l’altro c’è. L’immagine più trasparente della misericordia è quella dell’amore di una madre per la sua creatura: amore viscerale, che non fa il calcolo del dare e dell’avere, ma dà senza motivazione e senza misura.
In ebraico – lingua in cui batte particolarmente il sangue caldo della vita – il termine per dire misericordia è “rahamim”, che vuol dire “viscere”, “grembo” di donna che custodisce e genera la vita. Dio ama così: è Padre e Madre nell’amore.
Saperlo è sorgente di pace, perché ci libera da tutto l’affanno di cercare motivi – sempre improbabili – per meritare il Suo amore. Chi anche una sola volta nella vita ha fatto esperienza della misericordia divina, sa quanto è bello esserne avvolti, lasciarsene inondare e trasformare, e come essa ci chieda di non metterci mai sul trono del giudice riguardo a gli altri, ma sempre e solo nell’atteggiamento di chi accoglie, comprende e ama. La misericordia genera misericordia: chi l’ha conosciuta, impara ad essere per l’altro porto e sorgente di misericordia e di perdono, a prescindere da ogni merito e da ogni reciprocità. E chi offre misericordia, amando senza attendersi alcun ritorno per sé, entra sempre più negli abissi trasfiguranti delle divina misericordia: è dando che si riceve; è morendo a se stessi, che si resuscita a vita eterna, immersi nell’infinita misericordia di Dio. “
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
È puro di cuore chi non considera assoluto ciò che è relativo, chi sa riconoscere il penultimo e valutarlo nell’orizzonte dell’ultimo, che è solo Dio e la Sua gloria.
Impuro è il cuore attaccato alle cose che passano, che cerca di goderne illudendosi che esse possano dare la gioia e la felicità che non passano. In un mondo che assolutizza ciò che è relativo e giustifica ogni mezzo per possedere il bene fugace e fragile come se dovesse restare per sempre, la purezza di cuore non sembra essere di moda, né attuale né attraente.
Eppure, sembra dirci Gesù, è questo l’abbaglio capace di rovinare il cuore e la vita! Solo chi ha un cuore puro potrà vedere Dio, oggi riconoscendone i segni e la presenza nei frammenti del mondo che passa, domani contemplandone senza veli il volto nella bellezza del mondo che non avrà fine.
La purezza del cuore è allora la condizione per la realizzazione del desiderio più profondo del nostro essere creature chiamate ad amare, il desiderio di vedere Dio e di poterlo amare essendone infinitamente amati. Il puro di cuore vive alla presenza di Dio e Dio vive in lui, negli abissi della sua anima assetata di luce, di bellezza, di amore. Custodire il cuore, vigilare perché nessuna sporcizia ed egoismo appannino gli occhi dell’anima, vuol dire aprirsi alla gioia grandissima che solo la visione di Dio può darci. In tutto ciò che sei e fai, che scegli o che rifiuti, non dimenticare di cercare e realizzare la condizione decisiva della felicità, che nasce dal vedere accanto a Te e per Te la presenza dell’Amato e dal cogliere il senso e il valore di tutto nella Sua luce. “
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
La pace non potrà mai venire dalla paura del più forte o dalla fiducia nella potenza delle armi: quanti sono stati nella storia i giganti dai piedi di argilla, per i quali è bastato un sassolino a far crollare la macchina impressionante del loro potere!
Opera per la pace non chi pone la sua fiducia nello spettro della guerra, ma chi segue sempre e fino in fondo la via del dialogo, della giustizia per tutti e del perdono.
Non si risolveranno i conflitti chiudendosi all’ascolto dell’altro, accecati dalle proprie ragioni: solo chi si sforzerà di capire le ragioni dell’altro potrà costruire la pace con lui.
Solo chi si impegnerà a rispettare la giustizia per tutti, aprirà la strada all’incontro e alla riconciliazione delle parti in gioco. Solo chi saprà chiedere e offrire perdono, sarà un costruttore di pace.
Chi vuole servire la pace dovrà imparare a riconoscere nell’altro il compagno in umanità, figlio dell’unico Padre Signore della terra e del cielo, il fratello per cui Cristo è morto.
Ecco perché gli operatori di pace saranno riconosciuti come figli dell’unico Padre, figli che generano altri figli per Dio costruendo ponti di pace nella comune obbedienza alla verità che libera e salva.
La gioia di chi edifica la pace è la felicità di chi si scopre amato dall’Altissimo e reso in questo medesimo e unico amore fratello universale, fratello di tutti al servizio del bene di ciascuno e dell’intera famiglia umana. “
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Chi veramente ama è pronto a pagare il prezzo perché nessuno sia calpestato e offeso. Il Signore crocifisso ne è la prova luminosa e perfino conturbante: Gesù non ha mai fatto violenza a nessuno, preferendo piuttosto consegnarsi alla morte per amore di tutti, perfino dei suoi persecutori.
Chi vuol seguire il Maestro sa che non c’è altra strada per essere felici e rendere gli altri felici: preferire di essere perseguitati per la giustizia, piuttosto che fare del male a qualcuno o ricorrere a mezzi ingiusti per far trionfare la propria causa.
Chi crede in Gesù, crede nella potenza della debolezza.
Il discepolo del Dio crocifisso sa che nessuna giustizia potrà essere costruita sull’ingiustizia, nessuna riconciliazione sulla vendetta, nessuna pace sulla violenza e la sopraffazione.
A che servirebbe guadagnare il mondo intero, se poi si dovesse perdere la propria anima? Beato è chi soffre per causa della giustizia, accettando di amare anche chi lo perseguitasse. L’impotenza di Dio è più forte della potenza degli uomini!
La debolezza dell’amore, vissuto in unione all’offerta del Figlio abbandonato, è la sola vittoria che vincerà il mondo. Saperlo è già profondissima pace.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
Gesù si rivolge ora direttamente a noi, suoi discepoli.
Non ci pensa come trionfatori, ma come l’umile Chiesa della Croce che porta a tutti il Suo Vangelo e che per questo trova incomprensioni, offese, persecuzioni e calunnie.
Il Maestro sa che il Suo messaggio è scomodo, perché capovolge la logica del mondo: e le beatitudini ne sono prova evidente! Sovvertire la gerarchia dei valori e dei gusti, anteporre a tutto l’obbedienza a Dio e il dono di sé fino alla fine, non solo appare a molti follia, ma dà anche fastidio, perché smaschera le false verità del mondo e inchioda i potenti alle loro responsabilità, mentre esalta il diritto dei poveri e dei deboli e il loro primato nella gerarchia del cielo.
Seguire Gesù non è mai stato facile, come prova la vita dei santi. Eppure, è veramente bello: chi, come Lui, potrà darci la gioia di cui il nostro cuore inquieto ha tanto bisogno?
Chi ci darà l’amore di cui abbiamo fame e sete, o chi riconoscerà la dignità del nostro povero essere, se non Lui che ci ha amati e ha consegnato se stesso alla morte per noi? Cristo non è solo la verità che illumina e il bene che riscalda, ma è anche l’infinita bellezza che salva, fonte di gioia e di pace.
Perciò il Maestro ci dice: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. E ci assicura che, seguendo Lui, entriamo nella grande schiera dei profeti e dei santi e partecipiamo sin da ora alla bellezza che un giorno ci sarà data senza misura nella città celeste.
L’uomo nuovo delle beatitudini, il discepolo amato, non sarà mai solo e proprio così vincerà il Maligno e le potenze della morte.
La sua gioia non avrà mai fine: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”.
Il santo è chi ha compreso e vissuto tutto questo: è l’uomo o la donna delle beatitudini. Egli vive la gioia promessa da Gesù alle condizioni indicate da Gesù.
Perciò, chi vuol tendere alla santità – umanità piena e felice, in cui il progetto di Dio è portato a compimento – chiederà pregando con cuore umile e fiducioso che si realizzi sempre più in lui la verità delle beatitudini: “O Signore, fa’ di me uno strumento della Tua Pace. Dove c’è odio, ch’io porti l’amore, dove c’è offesa, ch’io porti il perdono, dove c’è discordia, ch’io porti l’unione, dove c’è dubbio, ch’io porti la fede, dove c’è errore, ch’io porti la verità, dove c’è disperazione, ch’io porti la speranza, dove c’è tristezza, ch’io porti la gioia, dove ci sono le tenebre, ch’io porti la luce. O Maestro, fa’ ch’io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare; di essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato, quanto di amare. Poiché è dando che si riceve, è perdonando che si è perdonati, è morendo che si risuscita a vita eterna. Amen! Alleluja!”. ( Bruno Forte )
XXX Domenica del T.O. – Dio va amato amando gli altri come lui li ama.
[ Nel Vangelo di questa domenica XXX del T.O. ] entrano di nuovo in scena i farisei, e tra loro un dottore della Legge, un teologo diremmo noi, un esperto delle sante Scritture, “lo interroga per metterlo alla prova: ‘Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? “. ( E.Bianchi )
Leggiamo per esempio, nel Libro del Deuteronomio, cap. 6, vv. 4-5: “Ascolta Israele: il Signore è ;I nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore con tutta l’anima e con tutte le forze“. E nel Libro del Levitico cap. 19 vv. 17-18. 1eggiamo: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore“.
Mentre ricorda la legge antica, però, Gesù introduce due importanti novità.
La prima è l’unione dei due comandamenti.
Per Gesù la carità è un fatto complesso e articolato. Affonda le sue radici in una dedizione senza riserve a Dio: tutta la persona con le sue doti, i suoi progetti, le sue capacità operative deve affidarsi alla volontà di Dio, al progetto di amore che Dio ha sugli uomini.
La manifestazione visibile e dinamica di questo affidamento è la dedizione a ogni uomo, considerato come un fratello, un prossimo, un altro se stesso.
Separare o semplificare i diversi aspetti di quell’evento unitario che è la carità, significa far valere qualche nostra prospettiva ristretta contro gli immensi orizzonti dischiusi dallo sguardo di Gesù.
La seconda novità è la sorprendente e rivoluzionaria concezione del prossimo. Solo l’evangelista Luca pone sulle labbra del maestro della legge una seconda domanda: “Ma chi è il prossimo?”. Gesù risponde raccontando la parabola del buon samaritano.
Il prossimo non esiste già. Prossimo si diventa.
Prossimo non è colui che ha già con me dei rapporti di sangue, di razza, di affari, di affinità psicologica.
Prossimo divento io stesso nell’atto in cui, davanti a un uomo, anche davanti al forestiero e al nemico, decido di fare un passo che mi avvicina, mi approssima.
L’amore per l’uomo nasce dalla dedizione a Dio, manifesta l’affidamento alla volontà di Dio.
Ma Dio è il Padre di tutti.
Per questo, colui che è radicato nell’amore di Dio guarda e avvicina ogni uomo, creando vincoli nuovi di prossimità, e scavalca le barriere della razza, della classe sociale, della diversa mentalità, della diversa appartenenza religiosa. ( C.M. Martini )
…L’autenticità del mio amore si dimostra non nel momento in cui esso si spiega nella trama precostituita delle simpatie e delle consanguineità. Questa è una tendenza pericolosa. Perfino nel Nuovo Testamento spesso si trovano esortazioni all’amore che sembrano riguardare soltanto i cristiani fra di loro: «I cristiani si amano come fratelli».
E gli altri?
In questa tendenza viene meno l’essenziale della parola di Gesù che ci esorta ad amare il prossimo che è colui che è distante da me, che è altro da me, perché Dio è altro da me. ( E. Balducci )
[ Nel testo del Vangelo di questa domenica ] il secondo comandamento è definito pari al primo, con la stessa importanza, lo stesso peso, mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27).
Sì, Gesù compie un’audace e decisiva innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare il fratello, la sorella.
Lo esprimerà un suo discepolo, Giovanni, riprendendo l’insegnamento di Gesù: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20-21).
…. Noi parliamo troppo facilmente di amore per Dio, perché ci infiammiamo nel pensarci quali amanti: allora accresciamo il nostro desiderio di Dio, aneliamo a lui, cantiamo la nostra sete di lui (si veda, in proposito, l’inizio degli splendidi salmi 42 e 63), godiamo di stare nella sua intimità, pratichiamo anche un’assiduità con Dio nella preghiera, negli affetti, nei sentimenti, nelle emozioni.
Ma occorre sempre discernere se in tale amore Dio è ascoltato o no, se la sua volontà è realizzata o no: in sintesi, se in questa relazione ci accontentiamo di un amore di desiderio, senza che vi sia in noi anche l’amore di ascolto e di obbedienza.
Va detto con chiarezza: il rapporto con Dio è esposto al rischio dell’idolatria, perché se Dio è ridotto a un oggetto del nostro amore, se amiamo un’immagine di Dio che noi abbiamo plasmato, allora Dio è un idolo, non il Dio vivente che si è rivelato a noi!
Certo, in quanto esseri umani abbiamo bisogno di esprimere l’amore per Dio anche con il linguaggio del desiderio che ci abita e che ci spinge fuori di noi stessi. Dobbiamo però sempre ricordare l’essenziale: noi aneliamo all’abbraccio con il Signore, con il Dio vivente, ma egli entra in una relazione intima, penetrante, conoscitiva con noi, nella misura in cui lo ascoltiamo, e dunque facciamo il suo desiderio, la sua volontà.
Insomma, Dio va amato amando gli altri come lui li ama.
L’amore per gli altri è ciò che rende vero il nostro amore per Dio, è l’unico luogo rivelativo, l’unico segno oggettivo che noi siamo discepoli di Gesù, e dunque amiamo Gesù e amiamo Dio. ( E. Bianchi )