Vangelo Domeniche e Festività
Domenica XXIX del T.O. – Cesare è il Signore della moneta … Dio è il Signore dell'uomo.
[Il vangelo di questa Domenica XXIX del T.O anno A ] ci presenta i farisei che intendono intrappolare Gesù e gli pongono quindi una domanda tranello: “Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”.
Il tributo era il “censo”, l’imposta personale e fondiaria: pagarla significava riconoscere la signoria dei romani.
Se Gesù rispondeva che bisognava pagarla, si inimicava il popolo che mal sopportava la signoria dei romani, se rispondeva diversamente, gli erodiani, appositamente invitati, lo avrebbero denunciato all’autorità come sovversivo.
Una domanda per incastrarlo. ….
Al Signore viene detto che Egli non guarda in faccia a nessuno. Ma in certo senso Egli guarda in faccia e a questo ci invita quando appunto domanda di chi sono ”l’immagine” e l’iscrizione della moneta.
Ci possiamo domandare qual è l’immagine che esprime e rivela quello che non deve essere dato a Cesare ma a Dio.
E viene avanti l’ipotesi che questa “immagine” sia l’umanità stessa, ogni uomo e donna della terra, perché nella creazione sono stati fatti “a immagine di Dio” (Genesi 1,27)!
Ascoltiamo che cosa dice il Vangelo: “Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: Ipocriti! Perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Essi gli pre-sentarono un denaro. Ed egli domandò loro: Di chi è questa immagine e l’iscrizione? Risposero: di Cesare. Allora disse loro: Rendete dunque ciò che è di Cesare a Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22, 18-21).
La moneta che viene mostrata a Gesù portava l’immagine dell’imperatore Tiberio e di sua madre. Sulla moneta vi era scritto: “Tiberio Cesare Imperatore, figlio del Divino Augusto” da una parte e dall’altra “Pontefice Massimo”.
La moneta era di Cesare e gli andava restituita. Fin qui tutto chiaro.
Ma Gesù aggiunse: “Date a Dio quello che è di Dio”.
Di Dio è l’uomo.
L’uomo è immagine di Dio. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, leggiamo in Gen 1, 26; “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1, 27).
Gesù è venuto a rendere a Dio ciò che è di Dio; a restituire all’uomo la sua libertà di figlio.
Nessuno può esercitare una signoria sull’uomo. L’uomo è restituito alla sua libertà, alla sua dignità.
…. Cesare è il Signore della moneta. Dio è il Signore dell’uomo. A Cesare non si può dare-pagare-restituire la creatura umana perché quella assolutamente non è sua!! Diamogli la moneta, ma opponiamoci assolutamente a che egli pretenda di essere il “signore” dell’umanità.
XXVIII Dom. del T.O. – Non è sufficiente la vocazione a un compito, bisogna anche adempierlo con fedeltà e impegno.
Le varie parabole di Gesù attingono sempre alla vita sociale di un popolo.
Nel caso del banchetto nuziale regale (Matteo 22,1-14) si fa riferimento a un evento che, anche ai nostri giorni, stimola l’interesse della comunicazione e la curiosità della gente.
Gesù, elaborando un simile avvenimento, lo colora di allusioni allegoriche modulate anche sulla tradizione biblica:
il re evoca Dio, mentre suo figlio si trasfigura nel Messia e il banchetto nuziale diventa la grande celebrazione della festosa era messianica (si legga Isaia 25,6-10);
nei servi inviati a convocare gli invitati sono riconoscibili i profeti e gli apostoli;
gli invitati della prima cernita, che si comportano in modo così altezzoso e fin aggressivo, incarnano l’Israele peccatore e i Giudei che rigettano Cristo;
i chiamati raccolti per le strade rimandano ai pagani lieti di essere ammessi in quel banchetto privilegiato,
mentre la città dei ribelli data alle fiamme è l’anticipazione della rovina di Gerusalemme del 70 dopo Cristo.
Rimane, però, un’altra scena piuttosto sconcertante, introdotta solo da Matteo.
Alcuni studiosi pensano persino che si tratti di un’altra parabola “incollata” a quella del banchetto nuziale che è nota anche a Luca (14,16-24).
La prospettiva sembra diversa e più universale: siamo di fronte al giudizio finale ove si consumerà una divisione netta, simile a quella tra grano e zizzania di un’altra nota parabola matteana (13,24-30).
È da questa seconda parte del racconto che noi abbiamo desunto l’elemento centrale piuttosto sconcertante, che vede come protagonista un uomo senza l’abito da cerimonia.
La perplessità che proviamo è spontanea: una condanna così aspra è giustificata da una semplice mancanza di etichetta? Evidentemente no.
Bisogna risalire al simbolismo, diffuso in tutte le culture, della veste.
Essa non ha solo funzioni concrete nei confronti del clima o di decenza riguardo al pubblico, ma rivela anche un aspetto emblematico, estetico e sociale (si pensi solo alla funzione fin esasperata della moda ai nostri giorni).
Anzi, l’abito da cerimonia è spesso indizio di una dignità civile o religiosa: è ciò che accade per i paramenti sacerdotali, la corona e lo scettro reale, la fascia del sindaco e così via, tant’è vero che per indicare l’accesso a una carica pubblica parliamo di “investitura”.
È chiaro, allora, che l’assenza di abito nuziale nel protagonista di questo secondo racconto è indizio ben più grave di una semplice carenza di educazione.
È la privazione di quelle opere e qualità morali che possono ammettere al Regno di Dio e al suo banchetto.
Non è sufficiente la vocazione a un compito (“i chiamati”), bisogna anche adempierlo con fedeltà e impegno così da diventare “eletti”, cioè ammessi alla festa finale.
Fede e opere di giustizia devono unirsi nell’esistenza, perché «non chiunque dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre che è nei cieli» (Matteo 7,21). Altrimenti si è votati alle tenebre della condanna infernale, lontani dal banchetto del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e stridore di denti», un’immagine quest’ultima non solo di freddo, come si ha nel mondo classico e come suppone l’oscurità con l’assenza del sole, ma anche di terrore e di disperazione. ( G. Ravasi)
XXVII Domenica del T.O. – "i vignaioli che compiono l'uccisione sono una categoria teologica permanente non solo storica. Sono i capi ma sono anche tutto il popolo. Sono quelli che stanno davanti al Signore."
… Un’analisi del testo fa vedere che le immagini non si possono ridurre a unità, si sommano. Dovremmo fare commenti secondo tanti successivi [elementi].
In Is 5,1-7 le traduzioni dicono: canterò per il mio diletto il canto del mio diletto per la sua vigna.
Chi canta?
È il profeta che è eco del Diletto, è un puro riecheggiare del canto di Dio in modo tale che quella vigna diventa sua; il popolo si identifica con Dio e lo echeggia e quindi la vigna diventa sua.
Questa rappresenta una chiave generale per la nostra vita: lo Spirito Santo ci porta a riecheggiare il sentimento e il canto di Dio e la sua vigna diventa nostra cioè i suoi interessi per la vigna.
Il regno di Dio diventa talmente oggetto dei nostri pensieri che diventa il nostro regno.
Solo così ha senso la vita.
C’è indicata una chiave generale di interpretazione che fa capire qual è il senso della nostra vita: è vivere in profondità con il pensiero e il sentire di Dio.
Il resto del canto dice tutto l’amore gelosia e cura di Dio. E questo è ripreso nell’immagine iniziale del Vangelo.
Mt 21,33 sg. I vignaioli riconoscono il Figlio ed è per questo che fanno quello che fanno. C’è quindi intuizione del Figlio e della sua signoria: egli è l’erede.
Nella punta della parabola (che però ha più punte, ora ne vediamo una sola) i vignaioli che compiono l’uccisione sono una categoria teologica permanente non solo storica. Sono i capi ma sono anche tutto il popolo. Sono quelli che stanno davanti al Signore.
Questa categoria teologica si rinnova nel tempo intermedio e quindi ci siamo dentro tutti perché nell’ultimo strato la vigna diventa il Regno di Dio.
Dio colloca nel Regno, ma nessuno può dire con sicurezza il Regno di Dio è collocato in noi, nel senso che non sappiamo se siamo coloro dai quali si aspetta molto frutto e non lo vogliamo dare e allora si apre il discorso della traslazione del Regno.
Quindi da un lato una grande gratitudine per quello che Dio ha fatto e dall’altro un senso più grande del timore santo di fronte alla nostra sterilità e non corrispondenza.
Se noi non sappiamo echeggiare questo cantico non vivremmo la nostra vita, d’altro lato la nostra vita è segnata da un’appropriazione del dono che sterilizza tutto.
Per noi il rischio ha una percentuale più alta che per altri.
Per altri si può dire che commettono errori più grossolani però ci sono dei ricuperi nella loro vita che non dà loro pace; per noi ben circondati dal muro ecc, con tutto ben custodito o costruito, i rischi sono sotto un certo aspetto minori ma più gravi: si può sbagliare tutto quando tutto in apparenza va bene o perfettamente bene.
Ad esempio sulle paginette delle norme a Monteveglio, voi avete attribuito un peso che io non ho dato.
È proprio quando si cerca di rinnovare che i rischi sono maggiori; questo va fatto ma in proporzione di una crescita di lucidità e umiltà per le immense e incolmabili lacune della nostra risposta. È rivolto a far vedere la consapevolezza del nostro peccato non tanto a mettere in risalto un perfezionismo. Le due cose devono procedere insieme altrimenti non hanno significato.
Si precipita di nuovo nel giudaismo e ci si mette in quella strada sicura sulla quale il Signore ci toglie il Regno.
Certo il mondo ci fa assistere a uno spettacolo che sembra più tragico ma questo non può portarci a restaurare un certo giudaismo in noi.
La parabola di stamani viene ad ammonirci. Ogni tentativo che si faccia per custodire e rafforzare, tutto è animato da una supplica al Signore che ci difenda da ogni tentativo di ripiegamento giudaizzante.
Tutto serve per mettere in luce la nostra miseria e solo così speriamo che in noi nella famiglia e nella Chiesa la presenza del suo Regno santo.
Tutto deve avvenire con un controllo dell’intimo sentimento con cui agiamo e con la consapevolezza che in noi non c’è nulla se non il peccato.
E in questo il Signore ci esaudisce facendoci vedere il nostro male in un modo umile, mite, paziente. Il silenzio e il raccoglimento ha senso se ci sentiamo più peccatori e a confessarlo per la sua gloria: e allora il Regno, [al quale] per puro dono suo ci siamo consacrati, non ci viene tolto (Don Giuseppe Dossetti -Gerusalemme, 1 ottobre 1978)
XXVI Domenica del T. O. – Nessuno che abbia peccato è rinchiuso per sempre nella sua rivolta, ma ha la possibilità di riprendere una relazione…
Il testo del vangelo odierno è molto breve: una parabola di due versetti, e altri due versetti che contengono considerazioni di Gesù sui destinatari delle sue parole.
La parabola è inquadrata da due domande, quella finale (“Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”) e quella introduttiva (“Che ve ne pare?”), presente anche altrove (Mt 18,12). Gesù intende intrigare, coinvolgere quanti lo ascoltano – in questo caso “i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” (Mt 21,23) –, suscitando la loro risposta.
Sono dunque importanti non solo le sue parole, ma anche le parole dei suoi ascoltatori, quelli di allora e quelli di adesso, noi! Cerchiamo pertanto di ascoltare, di pensare, di indagare e di rispondere in verità.
Un padre, che ha due figli, comanda al primo di andare a lavorare nella vigna. Costui reagisce male, opponendosi a lui con un atteggiamento di disobbedienza: “Non ne ho voglia”. Poi però quel comando ascoltato, custodito nel cuore, lo porta alla consapevolezza di aver mancato verso il padre, e così egli decide di andare nella vigna. Si era opposto a parole ma poi, pentito (metameletheís, paenitentia motus), va a realizzare la volontà del padre e lavora nella vigna, come questi gli aveva chiesto. Lo stesso comando è rivolto al secondo figlio, il quale risponde subito: “Sì, signore”, ma in realtà non va nella vigna, disobbedendo nei fatti. Insomma, c’è una “volontà del padre” (tò thélema toû patrós: cf. anche Mt 7,21; 12,50) che è realizzata da chi dice “no” ed è contraddetta da chi dice “sì”.
Chi sbaglia, chi fa un errore, chi dice “no” a Dio, ha la possibilità di pentirsi, di ritornare a lui. Nessuno che abbia peccato è rinchiuso per sempre nella sua rivolta, ma ha la possibilità di riprendere una relazione, un rapporto venuto meno. Certo, uno sguardo fisso su quell’atto di disobbedienza, su quel “no”, può portarci a un giudizio negativo, di condanna, ma l’uomo va misurato nel tempo, sull’insieme del cammino compiuto, non sull’istante a volte cattivo. Dio, poi, pazienta perché vede e sente in grande, nella sua makrothýmia (cf. Mt 18,26; 2Pt 3,9), e quando ci giudicherà guarderà tutto il cammino percorso, tutta la fatica fatta, non si fermerà sulle nostre cadute…
Quanto al figlio che dice: “Sì, signore”, che appare pronto e obbediente al padre, ma poi non realizza la sua volontà, che dire di lui? Spesso noi siamo, ciascuno di noi è così! Purtroppo la nostra vita cristiana è fatta di tante confessioni di fede, di tante invocazioni: “Signore, Signore!” (Mt 7,21.22; Lc 6,46), di tante liturgie in cui ripetiamo continuamente: “Amen!”, cioè “Sì!” al Signore, e poi, abbandonata l’assemblea liturgica, nel quotidiano non facciamo ciò che Dio ci ha chiesto con la sua parola ma ciò che vogliamo noi…
Davanti a Dio conta non ciò che di noi appare agli altri, ma ciò che noi facciamo e siamo: Dio vede la nostra coerenza o la nostra ipocrisia di credenti che “dicono e non fanno” (Mt 23,3), come Gesù stesso ha ricordato; ovvero, la nostra doppiezza di persone che hanno in bocca il nome del Signore, mentre in verità il Signore determina poco o nulla del loro vivere e comportarsi. È l’atteggiamento di quei cristiani che dicono di amare Dio e si esercitano anche in “affetti spirituali” per lui, avendo sete di lui, cercandolo, dichiarando il loro ardente desiderio della sua presenza (tutte espressioni dei salmi), ma ignorando e contraddicendo la sua volontà. No – ha detto Gesù – “non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21); “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama … Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,15.21.23), la metterà in pratica. Alla fine non contano i “sì” o i “no” dichiarati, ma la realtà del nostro vissuto!
Ed ecco allora che Gesù fa un’applicazione della parabola per i suoi uditori. Egli dice che i pubblicani, cioè i peccatori manifesti, pubblici, riconosciuti tali da tutti, e le prostitute, donne visibilmente peccatrici, precederanno nel regno di Dio tanti credenti, tanti discepoli. Per quale motivo? Perché, a causa della vergogna per il loro peccato manifesto e del giudizio di condanna che ricevono da parte di molti, sentono il bisogno di cambiare vita, di dire “sì” con la loro vita. Al contrario, molti credenti, con i loro peccati nascosti, non visti, non giudicati, sono onorati da tutti come persone giuste e religiose; per questo non sentono il bisogno di convertirsi, ma anzi custodiscono i loro peccati, li amano e continuano a realizzarli: solo loro ne sono a conoscenza, perché dovrebbero cambiare? E così la loro vita, anche se apparentemente impeccabile, è di fatto un “no” a Dio!
Questo è successo con Giovanni il Battista – dice Gesù –, quando i peccatori pubblici hanno ascoltato la sua predicazione e gli hanno creduto; questo è successo anche con Gesù (non a caso definito dai suoi avversari “amico di pubblicani e di peccatori”: Mt 11,19; Lc 7,34) e la sua buona notizia; questo succede ancora oggi, tra di noi, nella chiesa. Sì, alla buona notizia di Gesù e del suo Vangelo rispondono più facilmente i peccatori pubblici, riconosciuti, che le persone religiose e apparentemente “giuste”, le quali non sono spinte a cambiare nulla della loro vita. ( E. Bianchi )