Vangelo Domeniche e Festività
XXV Domenica del T.O. – "Il Padre promette fin dal mattino il suo Cristo e poi lo dà a tutti."
Capire questa parabola, per noi che abbiamo “l’occhio maligno”, non è facile. Fortunato colui che la capisce qualche giorno prima di morire. Significa che il suo occhio vede ora giusto e quindi può entrare nel regno della gratuità, che è il regno del vero amore.( Carlo Carretto Lettere dal deserto )
Non è facile accettare un Dio che anziché premiare i buoni e castigare i malvagi fa invece “sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45) , offrendo a tutti il suo amore.
Un Dio del genere sembra ingiusto, come il padrone della parabola narrata da Gesù (Mt 20,1-15). ( A Maggi )
Ma Gesù, venuto a rivelarci il vero volto di Dio, venuto a mandare in frantumi tutte le immagini che noi fabbrichiamo, custodiamo con amore e poi proiettiamo su Dio, essendo proprio lui la narrazione definitiva di Dio (exeghésato: Gv 1,18) , in particolare attraverso le parabole ci racconta cos’è la giustizia di Dio. ( E Bianchi )
Quando Dio dice che la sua giustizia non è la nostra giustizia non intende squalificare la nostra giustizia come esigenza, come bisogno interiore, ma vuole risospingerci sulle nostre giustizie, quelle che abbiamo realizzato, perché ne scopriamo l’iniquità, la loro ingiustizia.
E come quando un professore di scuola fa il suo scrutinio di fine anno e mette i suoi otto, i nove, i dieci, i quattro, e i tre e se ne va a casa tranquillo, sicuro di aver fatto il suo dovere. Gli resterebbe da fare il più, di capire cioè perché il meno capace è rimasto emarginato, che cosa c’è nella impotenza di un bambino ….
… Dobbiamo ripiegarci sulle nostre giustizie, per scoprire che esse sono, magari, sistemazioni ideologicamente coerenti, ma hanno un vizio di radice esprimono sempre l’esigenza del dominio dell’uomo sull’uomo.
Riconoscere che c’è una giustizia di Dio mi riempie il cuore di commozione e di consolazione, perché penso sempre, per una specie di meccanismo immaginativo ormai consolidato, a tutte le turbe di persone passate nel mondo come vittime che non hanno nemmeno un fiore al cimitero, nemmeno il nome in una pietra: le sterminate moltitudini schiacciate da una miseria – dovuta evidentemente all’ opulenza degli opulenti – su cui non si è sparsa una lacrima.
Io penso con gioia a questa giustizia di Dio: i conti della vita sono scritti in un libro sigillato con sette sigilli che sarà dissigillato alla fine dei tempi. Allora ciascuno avrà il suo.
Quella giustizia coincide con la nostra?
Affatto!
Ci abbraccia tutti una giustizia che consolerà soprattutto le vittime, i peccatori, le meretrici, i pubblicani come disse il Signore. [ Ernesto Balducci – da : “Il Vangelo della pace” – vol. 1]
La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. L’uomo ragiona per equivalenza, Dio per eccedenza . (Card. Martini).
La giustizia di Dio include la misericordia, l’amore che non va mai meritato, e l’amore non solo è più grande della fede e della speranza, ma in Dio vince anche sulla sua giustizia (cf. Es 34,6-7).
Questa parabola è un canto all’amore di Dio che … non va mai meritato, ma accolto con gioia come dono e come amore riversato su tutti noi, tutti fratelli, e per Dio tutti figli amati con uguale intensità. ( E. Bianchi )
«Mi ha colpito la parola accordarsi.
Mi pare che questo nel senso più immediato introduca il concetto di alleanza.
L’alleanza chiesta al popolo è di servirlo.
In questa parabola sembra non esserci Cristo.
Questo mi ha fatto pensare che Cristo sia il denaro: il senso più avanzato della parabola sia questo: il Padre promette fin dal mattino il suo Cristo e poi lo dà a tutti.
Non può dare di più ai primi perché quello che dà è tutto, il suo Cristo: agli uni lo dà come frutto dell’alleanza, agli altri lo dà senza alleanza gratuitamente.
La dottrina delle” non opere“ si vede in questa luce.
La conclusione mi sembra molto bella: non solo appare che Dio dona la ricompensa ma qual è questa ricompensa, il suo Cristo, dato a tutti (sia a quelli del patto che agli altri) gratuitamente.
Ciò che è oggetto dell’alleanza che viene dato a Israele e alle Genti – cioè a tutti – è questo denaro che è dato a tutti.
Adesso è venuto il momento in cui il denaro non è solo di qualcuno ma di tutti.
Viene da questo una grande spinta dolce a dimenticare tutto e a guardare questo fatto, messo dentro all’umanità che rimane ancora nelle sue categorie, ma la riconferma è unica.
Noi che siamo servi del Signore dobbiamo esultare per aver ricevuto il danaro e non avere pace finché non sia dato a tutti, agli operai dell’alba come quelli dell’ultima ora, e a tutti i popoli» (d. G. Dossetti, omelia, Gerico 24.9.1972).
Esaltazione della S. Croce – Per sapere chi sia Dio devo inginocchiarmi ai piedi della croce.
… Non è la croce ad aver dato gloria a Gesù, ma è Gesù che ha vissuto anche la croce in modo da rendere questo strumento mortifero segno ed emblema di una vita offerta, spesa, perduta per amore, un amore vissuto “fino all’estremo” (eis télos: Gv 13,1) nei confronti degli uomini, anche dei suoi carnefici.
Per far comprendere questa verità ai cristiani e per non confinare la croce all’interno di una visione dolorista, la chiesa ha sentito il bisogno di celebrarla anche in un giorno diverso dal venerdì santo, al fine di raccontare la gloria che, grazie a essa, Gesù ha mostrato: la gloria dell’amore. …
Sulla croce, certo, Gesù umanamente appare un reietto, un riprovato, un condannato sofferente e impotente, ma in verità egli mostra la gloria, il peso che Dio ha nella sua vita.
Quel Dio Padre che sembrava averlo abbandonato, in realtà, essendo obbedito nella sua volontà di amore da parte di Gesù, mostra nella vita del Figlio tutta la sua gloria.
L’orribile croce diventa così un segno luminoso; l’essere issato in alto, su un palo, racconta il regnare di Gesù, esaltato da Dio (cf. anche Gv 8,28; 12,32-33);
la corona di spine sul capo di Gesù rivela la sua qualità di Re che serve quell’umanità che lo rifiuta;
le sue ferite nelle mani, nei piedi e nel costato mostrano come Gesù ha accolto la violenza, senza vendetta né rivalsa, interrompendo così la catena dell’odio, dell’inimicizia, della violenza (cf. Is 53,5-6.12).
Per questo il quarto vangelo, il vangelo “altro”, che ha un’ottica diversa dai sinottici, legge la passione di Gesù come evento di gloria, legge la crocifissione come intronizzazione del Messia, legge le bestemmie dei presenti quali titoli che riconoscono la vera identità di Gesù: egli è “il re dei Giudei” (Gv 19,19), nome che viene scritto e proclamato in ebraico, greco e latino, le tre lingue dell’oikouméne, le quali affermano dunque “il suo vero Nome che è al di sopra di ogni nome” (cf. Fil 2,9).
Non solo nei vangeli sinottici (cf. Mc 8,31 e par.; 9,31 e par.; 10,33-34 e par.), ma anche nel quarto vangelo la croce è stata profetizzata da Gesù come “necessitas” in questo mondo ingiusto, in cui l’uomo giusto finisce per essere rifiutato, condannato e ucciso.
Aveva infatti detto a Nicodemo che, come nel deserto era stato innalzato da Mosè un segno di salvezza per Israele (cf. Nm 21,4-9), così sarebbe stato innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque guardasse a lui con fede e invocazione potesse trovare la vita.
E non aveva forse anche detto: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)?
Ecco chi è colui che attira: un uomo che si manifesta non come un superuomo, nella potenza e nel trionfo mondani, ma un uomo sfigurato e colpito dagli ingiusti (cf. Is 53,2-3) semplicemente perché egli è il solo giusto capace di dare la sua vita per gli altri.
La croce gloriosa di Gesù è il segno di come Dio ci ha amati: suo Figlio è steso su un legno a braccia aperte, è un servo, è uno che ha offerto la vita e che vuole abbracciare tutti. ( E. Bianchi )
“L’unica parola che il cristiano ha da consegnare al mondo è la parola della Croce. Dio è entrato nella tragedia dell’uomo, perché l’uomo non vada perduto, con il mezzo scandalosamente povero e debole della croce. Per sapere chi sia Dio devo inginocchiarmi ai piedi della croce” (Karl Rahner)
…L’essenza del cristianesimo sta nella contemplazione del volto del crocifisso
Il crocifisso ci rivela il volto di Dio.
… Che cosa abbiamo davanti agli occhi contemplando il crocifisso?
Abbiamo un miracolo nuovo.
Cristo ha fatto tanti miracoli sul mare, sui cechi, sui lebbrosi.
Ma il miracolo nuovo è che questo Dio non fa un miracolo per sé, rimane in agonia, con le braccia aperte al padre e al mondo. ( Carlo Maria Martini, Non teniamo la storia, )
«Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» (P. Xardel)
XXIII Domenica del T.O. – Siamo perdonati continuamente e quotidianamente e perciò dobbiamo esercitarci nel perdono.
La chiesa non è composta di uomini e donne senza peccato, puri e giusti, sempre capaci di amore, ma registra al suo interno contraddizioni al Vangelo, misconoscimenti della vita in alleanza; registra l’apparire del male fatto responsabilmente, dunque del peccato.
Conflitti, opposizioni, gelosie, divisioni e separazioni accompagnano ogni cristiano fino alla fine del suo vivere nella chiesa.
Quando Matteo raccoglie queste parole di Gesù – all’interno del capitolo 18 del suo vangelo, il cosiddetto “discorso comunitario” –, è spinto dall’osservazione della realtà a consigliarci un vero e proprio cammino da compiere in vista della correzione fraterna, cioè della possibilità di riaccogliere nel corpo della comunità chi ha peccato. ( E. Bianchi )
“«Se tuo fratello»”, quindi si tratta di un componente della comunità, “«commetterà una colpa contro di te, va’ e …»”, non ammoniscilo, come riporta questa traduzione, ma “«convincilo»”.
Non è la posizione di un superiore verso un inferiore per ammonirlo, ma è la posizione del fratello che cerca di ricomporre l’unità, cerca di superare il dissidio.
Sempre ricordando quanto Gesù già ha ammonito, cioè che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello, occorre stare attenti che uno non abbia la trave conficcata nel suo (trave che deforma la sua realtà).
“«Tra te e lui solo»”, quindi al dissidio non deve essere data pubblicità, si deve risolvere il problema. Ed è la persona offesa che deve andare verso l’offensore, perché chi sbaglia, chi offende spesso non ha il coraggio, non ha la forza di chiedere scusa, di chiedere perdono.
“«E se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi con te una o due persone»”; sono quelli che nella comunità svolgono il ruolo di costruttori di pace, “«perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»”.
“«Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»”. Il termine greco è ecclesia che rappresenta la comunità dei convocati, l’assemblea dei convocati da Gesù, “«E se non ascolterà neanche la comunità, sia per te»”, quindi non per la comunità, ma per te, “«come il pagano e il pubblicano»”.
Cosa significa?
Non significa che quest’individuo, causa del dissidio, vada escluso dall’amore della comunità, e neanche dal tuo amore, ma significa che questo amore sarà a senso unico.
Mentre nella comunità l’amore donato viene anche ricevuto, perché i fratelli si scambiano vicendevolmente questo amore, verso la persona che è causa del dissidio, l’amore va dato come quello verso i nemici. ( A. Maggi )
La procedura indicata dall’evangelista è un’indicazione, non una legge: per questo occorre sempre saper creare nuove vie di riconciliazione, adattandole alle diverse situazioni e persone.
L’esperienza insegna che tante volte ci si deve arrestare al primo tentativo, fermandosi alla correzione da solo a solo, perché dire tutto ad altri o all’intera comunità aggrava la situazione, crea esclusione e ritarda la conversione.
Anche le parole di Gesù sulla correzione fraterna vanno dunque lette con intelligenza creativa, perché non sono un freddo codice, ma lasciano a ogni cristiano la responsabilità di come realizzarle.
Si capisce, per esempio, che una comunità può essere addirittura minacciata da azioni e comportamenti di qualcuno. Ma anche di fronte a questo rischio, spesso occorre lasciare che le cose avvengano da sé: non mandare via nessuno, ma accettare che qualcuno se ne vada, nella sua libertà e nel suo peccato…
In ogni caso, anche chi ha peccato contro la comunità, la famiglia, il gruppo, non va demonizzato, ma va amato, perché addirittura i nemici vanno amati, secondo il comando di Gesù (cf. Mt 5,44; Lc 6,27.35), lui che era “amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34) e non amico di chi si riteneva giusto e impeccabile.
Insomma, Gesù vuole che nella sua comunità regnino la misericordia e la trasparenza, che non ci siano rapporti offensivi e menzogneri.
E’ un brano che mi colpisce, mi intriga.
Che cosa vuol dire che devo perdonare fino a settanta volte sette?
Certo significa che dev’essere un esercizio molto frequente; se pensiamo che il parallelo di Luca aggiunge “al giorno” (17,4), è necessario perdonare ogni tre minuti, settanta volte sette per un giorno sono ogni tre minuti, giorno e notte.
Dunque Gesù spiega ampiamente la sua risposta nella parabola successiva (18,23‐35), la parabola del servo spietato. Si tratta di una lunga parafrasi che sta a sottolineare l’importanza assoluta del perdono: come mai tu, perdonato per diecimila talenti, osi non perdonare il tuo conservo che ti deve solo cento denari?
E che parli di quotidianità lo leggiamo in Matteo 6, dove insegna la preghiera del Padre nostro; dopo aver detto: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi inostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori“(11‐12).
Siamo perdonati continuamente e quotidianamente e perciò dobbiamo esercitarci nel perdono.
E’ significativo che l’unica spiegazione data da Gesù dopo il Padre nostro riguarda proprio il perdono: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”(14‐15).
(…)
Per che cosa perdonare? Per tutto ciò che non ci va nella vita, per tutto ciò che ci scontenta e che è molto nel nostro cammino quotidiano. E a chi?
Siamo sempre un po’ scontenti di noi stessi perché ci accorgiamo di non essere mai all’altezza delle situazioni, delle speranze, dei desideri, delle illusioni, e facciamo fatica a perdonarci; per lo più passiamo sopra, cerchiamo di non pensarci, ma non perdoniamo.
Siamo scontenti degli altri quando non rispondono ai nostri inviti, quando non ci capiscono, non ci danno retta, quando non vivono con noi un rapporto sereno, collaborante.
Talora ci arrabbiamo apertamente, ma di solito, volendo conservare un contegno corretto, ci teniamo dentro piccoli malumori, piccole amarezze che via via si accumulano e raramente diventano oggetto di perdono.
Dunque il carico delle cose in cui possiamo vivere l’esperienza del perdono è molto grande: a noi, agli altri, a Dio.
E possiamo viverlo in un processo non necessariamente formale (quasi prendendo le cose una per una), bensì nel risanamento dai rancori dell’inconscio attraverso quella pazienza e accettazione quotidiana che è appunto l’abbandono.
L’abbandono è intessuto di perdono in quanto ci permette di vedere il lato giusto, sereno, pacificante, confortante anche la dove ci sono pesi, fatiche, frustrazioni.
L’abbandono è capacità di prendere bene tutto ciò che ci accade, tutto ciò che incontriamo e con cui, di primo acchito, ci scontriamo
“A ogni offesa dell’amore, a ogni ferita, c’e’ un perdono da dare o da ricevere, per non procedere ricurvi, diffidenti, tristi, per non scegliere un comportamento che si maschera e si chiude in ruoli, modelli e meccanismi di difesa, che spesso hanno le loro radici nei risentimenti e nel perdono non dato.
Se esaminiamo tanti atteggiamenti nostri e altrui, ci accorgiamo di fatto che le chiusure di dialogo e i meccanismi di difesa hanno spesso la radice in risentimenti non sanati.
Quante volte ci domandiamo: Perché mi chiudo e non so comunicare? Perche questo disagio e malessere?
E’ possibile che la risposta stia proprio nella mancanza di perdono, che ci incatena a situazioni passate, di cui abbiamo dimenticato l’origine, o forse è il presente che ci rimanda a situazioni spiacevoli del passato. Ed ecco allora come il Signore ci perdona; il Signore può cancellare i nostri turbamenti e così il disagio e l’angoscia che ci attanagliano.
Nella preghiera può farci affiorare dettagli precisi che perderanno l’acre dei cattivi sentimenti proprio perché avremo con noi la Sua presenza. Ogni cosa della nostra vita dev’essere da noi accettata nella pace di un cuore che anela a essere guarito da Dio” (Tratto da un’omelia di Carlo Maria Martini).
XXII Domenica del T.O. – " Come Pietro ci piace la fede ortodossa, siamo ossessionati e ossessionanti nel difenderla, nell’incastonarla in formule, ma quanto a viverla, no, non ce la facciamo…"
” Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre..”
La seduzione di cui parla Geremia non ha nulla di romantico, invece ha molto di tragico.
Secondo l’uso di questo termine, è la seduzione che subisce chi viene adescato con inganno: Geremia si sente mortalmente imbrogliato dalla stessa parola di Dio che era stato inviato ad annunciare.
Vorrebbe non più dirla («non parlerò più nel suo nome») ma non ci riesce («ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo»).
Geremia ama la Parola più ancora della sua attuazione. Ama Dio più delle promesse di Dio, cerca Dio più delle sue consolazioni. ( A. Vianello )
[ La pagina evangelica di questa domenica ] – dobbiamo confessarlo con sincerità – ci scandalizza. È una pagina che, di fatto, costituisce un ostacolo alla nostra fede, una pagina che ci contraddice in profondità; e, soprattutto, quando questa pagina diventa anche solo un frammento della nostra vita, ci scuote fino alle fondamenta della fede e della vita.
Pietro, interrogato da Gesù circa la sua identità, sotto l’impulso dello Spirito santo inviatogli dal Padre ha appena confessato che Gesù è il Cristo, il Messia, il Figlio Unto da Dio; che in lui si compiono le promesse fatte a David (cf. Mt 16,15-17) : se dunque Gesù è il Messia promesso, che cosa si deve attendere?
Si deve attendere innanzitutto la sconfitta dei nemici, il trionfo del Messia e del suo popolo, un tempo di giustizia e di pace, un tempo favorevole ai poveri e ai giusti, a quanti hanno atteso e preparato il giorno del Messia.
Se Gesù è il Messia, un’attesa millenaria sta per essere colmata e “il giorno del Signore” (Am 5,18.20; Gl 1,15; 2,1.11; 3,4; 4,14, ecc.) sta per avvenire nella storia: allora il Signore regnerà veramente e definitivamente attraverso il suo Messia, dunque attraverso Gesù!
Questa è la fede, questa è la speranza del credente, del discepolo di Gesù, che ha deciso di seguirlo in vista del regno di Dio.
Ma… ecco l’inedito: “a partire da quel momento” – dice il vangelo –, cioè solo dopo la proclamazione di Pietro, “Gesù cominciò (érxato) a mostrare”, a insegnare qualcosa di nuovo e di inatteso.
Sì, lui è il Messia, ma per ora non bisogna proclamarlo né dirlo; e come Messia egli ora deve andare a Gerusalemme, dove lo attenderà il soffrire molte cose (pollá) da parte del potere religioso (anziani, capi dei sacerdoti e scribi), l’essere addirittura condannato come uomo nocivo alla società, come delinquente, l’essere quindi ucciso con violenza e il risorgere il terzo giorno.
È un annuncio nuovo, che risuonerà altre due volte (cf. Mt 17,22-23; 20,17-19) durante il cammino verso la città che “uccide i profeti” (cf. Mt 23,37) .
È un annuncio certo, verso il quale Gesù si prepara e tutto predispone, sapendo che questa fine “è necessaria” (deî), non perché penda su di lui un destino crudele o un fato ineluttabile, né tanto meno perché il Padre lo voglia vittima o sacrificio.
No, è così semplicemente perché nel mondo umano, il nostro mondo, colui che appare giusto viene odiato dagli altri; chi “ama fino alla fine” (cf. Gv 13,1) viene detestato; chi fa soltanto il bene, dicendo sempre la verità, dà fastidio e dunque “merita” di essere eliminato.
Come dimenticare, al riguardo, i perversi ragionamenti degli empi di fronte al giusto, narratici dal libro della Sapienza (cf. Sap 1,16-2,20) , ragionamenti che sono i nostri? Davvero, noi umani abbiamo paura della giustizia, della libertà, della bellezza: preferiamo ucciderle in chi ne è portatore, piuttosto che confrontarci con esse.
Ecco la “necessitas” della passione di Gesù, una necessità intraumana, alla quale Gesù potrebbe sfuggire soltanto rinnegando giustizia, libertà e bellezza, ed essendo così uguale a noi.
Guai a chi bestemmia il nostro Dio, leggendo in questa “necessitas” annunciata da Gesù la volontà del Padre, il desiderio del Padre che lui soffrisse e morisse per espiare i nostri peccati.
Chi pensa o dice così, dà a Dio l’immagine di un Padre perverso, cattivo, un’immagine che è un sacrilegio!
Ma questa verità è talmente inedita, difficile da portare, faticosa contemplazione (theoría: Lc 23,48) , che di fronte a essa noi diciamo: “No, non è possibile!”, e come Pietro protestiamo: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
Ci piace la fede ortodossa, siamo ossessionati e ossessionanti nel difenderla, nell’incastonarla in formule, ma quanto a viverla, no, non ce la facciamo: preferiamo diventare vigliacchi, con “il cuore diviso” (Sal 12,3).
Diciamo sì a un Messia trionfatore sui nemici, no a un Messia vittima della nostra stessa cattiveria.
Così facendo, quanti cristiani diventano ostacolo alla comprensione di chi è veramente Gesù… Diventano, letteralmente, Satana, avversari (come Gesù definisce, rimproverandolo, Pietro), che impediscono a se stessi e agli altri uomini e donne di vedere Gesù come nostro fratello vittima dell’ingiustizia e della violenza, e Dio come un Padre buono che lascia fare e non interviene, poiché rispetta l’uomo anche nella sua malvagità.
Sì, Dio lo comprende e per questo dirà, con Gesù sulla croce: “Vi perdono perché non sapete quello che dite né quello che fate” (cf. Lc 23,34).
Confessare Gesù quale Messia è confessare – come dice l’Apostolo Paolo – un Messia crocifisso, scandalo, ostacolo per gli uomini religiosi, e follia, idea pazza per gli uomini non credenti (cf. 1Cor 1,23).
È confessare “un Messia al contrario”. ( E. Bianchi )
….guardate come in che modo la maniera di pensare secondo gli uomini ha svuotato la croce di Cristo.
Su dieci cristiani, quando dico: «Chi non prende la mia croce e mi segue, non è degno di me», nove pensano subito che la croce voglia dire la croce delle tribolazioni, delle malattie…; insomma la rassegnazione, che è l’opposto assoluto di ciò che dice il Signore.
La lettura del Vangelo secondo gli uomini è una esortazione alla rassegnazione e invece, come sapete, Gesù non fu un rassegnato, anzi «è necessario che io sia condannato».
Perché è necessario?
Gesù Cristo è un fanatico?
È necessario perché la scelta che io ho fatto il giorno in cui dissi a Satana: «vai indietro», in cui rinunciai al dominio,al lenocinio del benessere fisico ed al miracolo – le tre rinunzie di Gesù nel deserto – porta inevitabilmente alla mia condanna!
E quello che Pietro non capiva, non poteva capire se non per barlumi.
Ma noi forse lo abbiamo capito?
Noi abbiamo fatto della fede in Cristo la religione della rassegnazione al punto tale da meritare rimproveri severi da chi ha accusato la religione cristiana di essere un oppio. Aveva ragione, perché per lo più è un oppio che con la premura di un al di là felice, legittima il mondo così com’è.
È lo svuotamento totale della profezia evangelica, è l’annientamento della necessità interiore.
Questa necessità ha un ordine suo, come le necessità che partono da scelte interessate, egoistiche, sia pure di tipo collettivo.
Spesso l’ègoismo, la ricerca del bene particolare, costi quel che costi, passa dall’individuo alla classe, dalla classe alla nazione.
Lo vedete come l’orizzonte si oscura per questa passione in cui non c’e alcun riflesso di universalità vera, di premura per l’umanità.
È proprio a manifestazione di peccato, che in certi momenti sembra non esserci, ma è come un’ombra nera che sta sotto la superficie della nostra euforia quotidiana e che in certe occasioni viene a galla e fa notte.
Questa necessita, se uno la sente, non lo lascia più in pace, è come un fuoco nelle ossa a cui non si può resistere. […] Allora uno dà la propria vita e la salva.
Questo è il segreto del Vangelo. Dare la propria vita non vuol dire andare cantando sul patibolo, vuol dire non prendere come ragione delI’esistenza la necessità secondo gli uomini, ma la necessità interiore, piantare lì il fondamento dei nostri progetti.
Allora si vive in questo movimento che ha avuto nella parola di Gesù Cristo la sua più alta legittimazione e che è un movimento che attraversa l’umanità in tutte le latitudini e longitudini… (Ernesto Balducci – “Gli ultimi tempi ” voI 1 anno A )
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